Csm: il capo della Stato deve scegliere il suo vice, le segreterie vanno selezionate per concorso e bisogna allungare la durata della consiliatura a 6-8 anni. Così, secondo l’ex presidente della Camera, si combattono baratti e ritorsioni tra i magistrati.
Luciano Violante ha attraversato tutte le fasi della giustizia, visto che se ne occupa da più di 50 anni. Ha fatto i conti con le accuse di giustizialismo che gli rivolsero in molti, tra cui Francesco Cossiga che lo chiamava addirittura «piccolo Vyšinskij», il procuratore delle purghe staliniane. E con quelle, all’opposto, di eccessivo garantismo o addirittura di inciucismo per non essersi accanito contro Silvio Berlusconi e le sue aziende. «Soffrivo a quegli insulti fino a quando non ci feci il callo capendo che la politica è campo di lotta» dice l’ex presidente della Camera. Magistrato, politico e professore universitario, dopo essersi occupato di mafia e terrorismo, oggi riflette sul rigore perduto delle toghe e su tutto ciò che ne consegue.
Che sensazione ha provato quando ha letto le intercettazioni tra Luca Palamara e i suoi colleghi?
«La sensazione di tutti. Non solo per i baratti, ma per la lingua, perché la lingua è il contenuto della comunicazione. Assomiglia molto a quella della peggiore politica. La magistratura è diventata una componente del sistema di governo. Colpa di un complesso di leggi intrusive, approvate dal Parlamento negli ultimi vent’anni, che regolano tutto e sorvegliano tutti. Queste leggi hanno consegnato alla magistratura poteri di carattere politico, ma il potere esige responsabilità e quei magistrati si sono comportati in modo non responsabile».
Siamo di fronte a uno dei tanti scontri tra politica e toghe o c’è qualcosa di più grave questa volta?
«Qui lo scontro è tra toghe e toghe. Matteo Salvini ha subìto. Non credo che quello scambio di battute infelici abbia ridotto
i suoi consensi, ma capisco che possa sentirsi meno sereno».
Ai magistrati delle chat secondo lei dava più fastidio Salvini o la sua politica sull’immigrazione?
«Io credo che abbia dato fastidio una certa arroganza manifestata da Salvini. Le battute sul giudice di Agrigento, il suo atteggiamento un po’ guasconesco».
È anche possibile che sia scattato un meccanismo di difesa del territorio perché un ministro era intervenuto su materie regolate solo dalla magistratura. Difficile cogliere dalle intercettazioni quale fosse il problema.
«L’allora vicepresidente del Csm Giovanni Legnini chiese espressamente ai colleghi togati, e non ai laici, di fare una nota scritta per appoggiare l’indagine sul sequestro della nave con i migranti».
La vicenda va spiegata dai protagonisti, ma pongo una domanda: da chi viene eletto il vicepresidente del Csm?
«Da un patto tra le correnti e tra queste e la componente laica. Quindi ogni consiliatura nasce con uno scambio che legittima tutti quelli successivi. Ci sono stati vicepresidenti di primissimo ordine come l’attuale, David Ermini. Però il vice del capo dello Stato non è scelto dal capo dello Stato. Possiamo discutere di questo? La mia idea è che possa essere il presidente della Repubblica a nominare il proprio vice. Così si toglierebbe un po’ di spazio ai baratti».
Quello dei migranti è un tema sensibile che divide da anni la politica e l’opinione pubblica. A leggere le considerazioni via chat dei magistrati, l’impressione che se ne ricava è: vogliamo entrare nel dibattito e imporre una linea…
«Una volta si diceva che i magistrati parlano solo attraverso le sentenze. Oggi sembra che alcuni parlino solo attraverso le chat. Quanto ai migranti, ci sono egualmente, con o senza Salvini. Il leader della Lega, come altri leader nazionalisti, ha rappresentato una preoccupazione sociale nei confronti degli immigrati, ma senza offrire soluzioni praticabili. Dicevano aiutiamoli a casa loro. E quando una ragazza che li aiutava a casa loro è stata prima sequestrata per più di un anno e poi liberata, hanno detto
che doveva stare a casa sua».
I passaggi più bui delle intercettazioni riguardano le nomine alle funzioni direttive, alle procure, per il potere che ne deriva. Inquieta pensare a una «riconoscenza» da parte dei nominati a chi, corrente o partito, li ha favoriti.
«Il più delle volte non è successo nulla, ma la reputazione dei magistrati coinvolti è rovinata. Se il cittadino che ti sta di fronte pensa che tu non sia indipendente, conta solo questa drammatica sfiducia, anche se infondata».
Lei crede che il capo dello Stato debba adoperarsi perché si dimettano anche i due consiglieri del Csm coinvolti nelle chat, e cioè Giuseppe Cascini e Marco Mancinetti, rispettivamente di Area e di Unicost, in modo che si possa scogliere il Csm oppure, come dice il ministro Alfonso Bonafede, bisogna aspettare la riforma per eleggere con nuovi criteri il parlamentino dei giudici?
«Chiedere l’intervento del capo dello Stato ogni volta che c’è un grave problema è segno delle difficoltà del momento. Non
è una legge elettorale che può risolvere questi problemi. Il Csm l’ha cambiata cinque o sei volte. Si è cercato
di estendere la platea degli eleggibili, poi quella degli elettori, poi di rivedere le regole, da proporzionale a maggioritario
e viceversa. Ma gli elettori sono 10.000, un paesino, e mettersi d’accordo è sempre possibile. Bisognerebbe guardare ad altro».
A che cosa, visto che il principale strumento di clientelismo, come dimostrano le intercettazioni, si annida dietro all’elezione?
«Per esempio alla segreteria del Csm e ai magistrati del servizio studi. Essere lì vuole dire essere vicini al Csm, precostituire carriere, esercitare una funzione di raccordo tra correnti. Sono eccellenti giuristi, dico sul serio, ma quale attendibilità hanno i magistrati che dovrebbero suggerire le prassi e le interpretazioni più corrette ai colleghi del Csm che li hanno scelti e che hanno interesse a far prevalere una tesi piuttosto che un’altra? Come se i funzionari della Camera fossero nominati dai deputati».
La bozza di riforma del Csm però non se ne occupa.
«Non mi pare. Una riforma del 1990 stabiliva che queste figure venissero assunte per concorso non tra magistrati, ma tra laureati in giurisprudenza. Però il Csm, contro il parere di due suoi autorevoli membri, l’attuale giudice costituzionale Nicolò Zanon e l’ex presidente di Cassazione Aniello Nappi, decise di ritenere abrogata la norma. Riprendere in mano questi temi significa recidere cordoni importanti tra Csm e correnti. L’altra cosa su cui insisto è la durata del consiglio: quattro anni sono pochi. L’eletto ha costantemente sul collo il fiato dell’elettore; la durata dovrebbe andare almeno a 6-8 anni, perché l’elettorato cambia e si riducono le possibilità di baratti e ritorsioni».
La moral suasion di Sergio Mattarella non dovrebbe esercitarsi anche nei confronti dell’attuale vicepresidente David Ermini?
«Il presidente ha detto tutto quello che doveva dire».
E invece l’Associazione nazionale magistrati ha fatto tutto quello che doveva fare? L’anno scorso, quando filtrarono alcune notizie sull’inchiesta, diffuse un comunicato definendo indegni alcuni componenti del parlamentino dei giudici. Ci furono dimissioni di tre componenti di Mi e di due di Unicost. Ora, invece, «si aspettano le carte»… A che cosa è dovuto questo doppiopesismo?
«Credo che sia autotutela di alcune componenti. Non ne esce bene chi evita di assumere atteggiamenti rigorosi. Prendere tempo è sbagliato perché c’è una responsabilità politica davanti all’opinione pubblica, che può anche essere responsabilità oggettiva, per il semplice fatto che la tua credibilità è compromessa. Tu magistrato eserciti poteri discrezionali rilevanti nei confronti dei cittadini e devi tenere comportamenti che rendano credibile il loro esercizio. È doloroso, ma va fatto».
Siamo al punto di non ritorno o questo Csm è ancora legittimato?
«Secondo me è in transizione. Ripeto, dai comportamenti dei singoli derivano i giudizi dei cittadini, è una transizione che non può durare ancora a lungo».
Condivide la proposta del senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri di una Commissione parlamentare d’inchiesta sulla vicenda Palamara?
«Un tribunale sui tribunali? Non mi pare il caso. È un conflitto nato all’interno di un corporazione che si è totalmente disinteressata a quello che accadeva fuori».
Col senno del poi, è stato un bene o un male avere esteso l’utilizzo del trojan ad altri reati e non averlo limitato a quelli di criminalità organizzata e terrorismo?
«Il punto è ciò che viene pubblicato. Il trojan è inserito sulla base di sospetti e quindi può colpire un numero indiscriminato di persone. Oggi la pubblica amministrazione è lenta anche per il rischio della perdita di reputazione che deriva dalla pubblicazione di conversazioni penalmente irrilevanti. Le norme sono talmente tante e talmente incerte che è facilissimo imbattersi nel sospetto di un’infrazione. Il problema quindi non è il trojan, ma definire le ipotesi di reato con più chiarezza. Ho visto positivamente la posizione del presidente del Consiglio sulla revisione dell’abuso d’ufficio. E comunque non si può mettere in discussione il trojan solo quando ci sono di mezzo i magistrati».
Può essere che un gioco di correnti abbia influito sullo scontro tra il ministro della Giustizia e il procuratore Nino Di Matteo. Non essendo plausibile che Bonafede abbia ceduto a pressioni di ambienti mafiosi, lei che cosa pensa? Francesco Basentini, ex capo del Dap, Leonardo Pucci e Fulvio Baldi, che lavoravano con Bonafede e che si sono dimessi, sono tutti riconducibili a Unicost.
«Escluderei il condizionamento del ministro. La parificazione tra Dap e Direzione affari penali è però sbagliata: nel secondo caso si è subalterni a un altro dirigente. Capisco quindi la rinuncia di Di Matteo. Non so perché Bonafede abbia poi ritirato la proposta, ma i cambiamenti di opinione sono frequenti nelle vicende politiche».
Perché secondo lei il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, ha scelto proprio questi giorni per ribadire che lo elogiavano solo se indagava su Silvio Berlusconi?
«Non lo so, ma so che nei confronti di Berlusconi, anche per come si è comportato lui con i magistrati, c’è stato uno scontro vero e vicendevolmente carico di pregiudizi. Quando si presentò davanti alla Giunta per le autorizzazioni a procedere, nel 2013, dissi una cosa abbastanza semplice e cioè che bisognava prima leggere la documentazione e che lui aveva il diritto di difendersi. Mi tornò addosso una valanga di insulti. Ma un partito democratico deve difendere anche i diritti degli avversari, sennò che partito democratico è?»
Queste intercettazioni giocano a favore della tesi sulle toghe rosse.
«Le toghe rosse non c’entrano nulla. Le dirò di più: la sinistra non ha mai dominato la magistratura. Nei primi anni Cinquanta c’era il problema dell’attuazione costituzionale dell’ordinamento e l’obiettivo di una generazione di magistrati interamente formata contro il fascismo era proprio questo. Partito comunista, partito socialista e sindacati, ma anche liberali e repubblicani apprezzavano, mentre le forze conservatrici contestavano. Alcuni di quei magistrati erano di sinistra, altri liberali e repubblicani, altri ancora della sinistra democristiana. C’era lo schieramento filo costituzionale e quello indifferente alla Costituzione. Questa contrapposizione è andata avanti nel tempo, con rotture rilevanti negli anni del terrorismo. Alcuni, come me, uscirono
da Magistratura democratica perché sul terrorismo di sinistra aveva un atteggiamento ambiguo. Oggi resta il fatto che se un politico di destra viene inquisito pensa che il magistrato sia un avversario politico. Ma sono procedure di autoconsolazione».
Che cosa è rimasto del partito dei giudici di cui lei era considerato il capo?
«C’è stato, le ripeto, un rapporto molto vicino tra il Pci e la magistratura più impegnata sul fronte del terrorismo per una comunanza di valori e di impegni. Ma non c’erano baratti. Forse la Dc, che era molto potente, cercava di influenzare questa o quella nomina, ma non per baratto, più per esercitare un’egemonia».
La politica debole, come sostiene Matteo Renzi nel suo ultimo libro, influisce sullo strapotere dei giudici? Anche lei ha detto che la giustizia è il luogo dove finiscono i conflitti che la politica non risolve. «Abbiamo fatto del Codice penale la Magna Charta della politica», parole sue.
La politica su questo terreno è a volte debole e incompetente. Quindi si muove a casaccio, inseguendo il fatto del giorno, ma non avendo una visione strategica del rapporto che deve esserci tra istituzioni politicamente responsabili come parlamento e governo e istituzioni politicamente non responsabili come la magistratura. A questo punto resta solo il Codice penale come carta dei valori
e quindi si fanno tante leggi penali e si regalano tanti poteri ai pubblici ministeri».
Quando la politica è più debole, la magistratura si rafforza.
«Si rafforza per queste tre componenti: l’ordinamento pervasivo, il diritto penale visto come risolutore dei problemi
e l’aura di eroismo che ha giustamente circondato la magistratura per i 24 magistrati uccisi dai terrorismi e dalla mafia. Tutte queste cose messe insieme fanno sì che il terzo potere dello Stato eserciti una funzione politico rappresentativa e non più solo applicativa. Si muove come se dovesse rispondere a istanze della società, non per applicare le leggi».
Il quadro si accentua, secondo lei, anche per un problema di competenze a livello governativo?
«Governare i cittadini è sempre difficile e giudicare i governi è sempre facile. Di fronte a problemi enormi, come la pandemia e la crisi economica, non ci sono governi adeguati».
Non lo erano neanche i governi della prima Repubblica?
«Era un mondo diverso, anche con vicende tragiche come i depistaggi sulle stragi. Ma prevalevano educazione, rispetto, disciplina. Da quegli anni viene una lezione. Un partito deve chiedersi: io che cosa rappresento nella storia del Paese oggi e che cosa rappresenterò domani? Se il problema è invece avere pochi secondi di battute sui tg, capisce che questo è teatro, non politica. È una visione che ha influenzato anche la magistratura. Qual è il magistrato di cui si parla di più? Quello che parla di più».
Si parla anche di Piercamillo Davigo, che sostiene che non bisogna aspettare le sentenze e che non ci sono innocenti, ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca. E Davigo è al Csm.
«Non condivido queste sue posizioni, ma Davigo è stato un ottimo magistrato. Chiediamoci piuttosto: qual è la percentuale di politici sotto processo e qual è la percentuale di magistrati? Ci sono magistrati in carcere, c’è una questione morale grave che non si risolve sollevando gli occhi al cielo. Non basta la riforma del giorno dopo, bisogna fare un discorso storico politico».
Il ministro Alfonso Bonafede sostiene che il suo disegno di legge sulla riforma del Csm alzerà finalmente un muro tra politica e magistratura.
«Ma se politici e magistrati stanno insieme nel Csm, di quale muro stiamo parlando? Ci sono toghe non iscritte ad alcun partito che svolgono le funzioni come se fossero politici, e altre che, uscite dal Parlamento, sono tornate a fare i giudici seriamente. Mi vengono in mente Salvatore Senese, Alfredo Mantovano e tanti altri».
Lei parla come se la politica fosse una cosa infetta.
«Io ho rispetto per la politica, ma ne segnalo i limiti. Scusi, ma se uno che fa le pizze dice che nel suo locale ci sono gli scarafaggi, chi vuole che ci vada? Se i politici parlano male mattina, pomeriggio e sera del mondo in cui vivono, poi come fanno a volere consensi? Va elevata la discussione».
I partiti erano grandi organismi pedagogici, oggi forse non più.
«Una delle prime lezioni che ho ricevuto in Parlamento è legata a Tomaso Sicolo, sindacalista pugliese mio vicino
di banco. Se parlava un democristiano urlava, se parlava un missino pure. Dopo un paio di giorni, il segretario del gruppo si avvicinò e gli disse: smettila, siamo qui per ascoltare quelli che non la pensano come noi. È un’idea profonda della democrazia».
Ha nostalgia delle scuole di partito?
«Le ho frequentate solo come docente, quando sono stato deputato. Oggi ci sono un sacco di ragazzi che vogliono impegnarsi e noi dobbiamo farli sentire protagonisti della loro storia e di quella che costruiranno. Tempo fa il dirigente di un partito politico mi ha chiesto di organizzare una scuola di formazione. Gli ho chiesto: scusa, ma voi avete un punto di vista? E lui mi ha risposto:
che c’entra? Ecco, questo è il problema».
