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Vicini di casa, da nemici a (quasi) amici

Vicini di casa, da nemici a (quasi) amici

L’isolamento forzato di queste settimane cambia anche i rapporti di condominio fino a ieri impostati, nel migliore dei casi, su formalità e insofferenze. Ci si conosce, ci si aiuta, si solidarizza, là dove prima ci si ignorava. Così, tra spesa condivisa e altruismi inaspettati, le relazioni migliorano. Almeno per adesso.


Quando ancora Bologna non era stata paralizzata dai divieti del coronavirus, Lorella viveva quella che lei oggi chiama, senza nostalgia e con involontario lirismo, «la solitudine del tran tran». Abitudini con poche variabili, una spola monotona tra la casa in zona Marconi e la sartoria a dieci minuti di cammino, dove andava a confezionare abiti da sposa.

I decreti impongono di sbarrare tutto, incluso il suo laboratorio, lasciandole una dote generosa di tempo libero. Più che l’ozio, a consigliarle un’idea è la generale scarsità di mascherine, che non si trovano o, se arrivano, finiscono subito: «Ho iniziato a cucirle da me. Sono in cotone doppio, lavabili». Non le mette in commercio, perché le richieste già si moltiplicano grazie al passaparola. I suoi clienti sono i vicini di casa: «Le lascio nella buca della posta o sul pianerottolo. Ci salutiamo con la mano, scusandoci della reciproca distanza».

Lorella chiede giusto il rimborso dei materiali, chi vuole fa un’offerta aggiuntiva per le mascherine «sospese», da regalare alle famiglie in difficoltà. Il guadagno è un altro: «Sto conoscendo persone che per anni avevo ignorato, nonostante abitassero nel mio palazzo, in quello di fronte, dietro l’angolo. Ho scoperto una dimensione da paese. Ho ritrovato il piacere di essere vicini».

La storia di Lorella è una delle tantissime dell’Italia chiusa in casa con rari spiragli verso l’esterno, che ha recuperato un senso di comunità in rapporti prima governati dall’indifferenza o dalla diffidenza. I piccoli battibecchi per il volume alto della musica sono evoluti in dibattiti sugli alimentari nei paraggi con i prezzi più onesti o quelli dove la fila si accorcia in orari strategici; le frecciatine e le liti nelle assemblee di condominio si sfogano con torte extra large o pentole con porzioni di pasta esagerate, per appoggiarne un piatto davanti all’uscio degli anziani soli, suonare il campanello e ricevere in cambio l’entusiasmo della gratitudine. Un collega di Pavia riferisce a chi scrive di querele nel suo palazzo ormai sepolte, trasformate in tentativi d’amicizia.

C’è tutto il repertorio immaginabile di favori, concordie e gentilezze, sono migliaia i casi che non si affacciano sulla cronaca dei giornali, restano sospesi tra la penombra dell’androne e l’andirivieni dell’ascensore. Un limbo prima irrequieto che sta facendo prove generali di paradiso. Altre storie, è inevitabile, finiscono invece per farsi raccontare: a Verona, a furia di flash mob, canzoni e sguardi furtivi lanciati tra i balconi, Paola e Michele, due quasi quarantenni, hanno rinunciato al loro status da single. Si sono innamorati e fidanzati senza ancora mai sfiorarsi. Da La guerra dei Roses tra dirimpettai, siamo passati a una versione contemporanea di Romeo e Giulietta. Si spera al riparo da veleni tra famiglie e tragedie nei capitoli successivi.

A Milano, Chiara, bancaria, ha tessuto una rete di sostegno reciproco nell’area di Porta Venezia: «Ci diciamo dov’è arrivato il disinfettante per le mani, qualcuno prende qualche confezione in più e le distribuisce agli altri. Ma non contano solo i gesti materiali: ci scambiamo gli eBook e i consigli sulle lezioni online, ci mettiamo a disposizione per spiegare, a chi non riesce, come fare le videochiamate su WhatsApp. O ascoltiamo chi non ha bisogno di niente, se non di sfogarsi in mezzo a quattro chiacchiere al telefono».

Chiara, tra una cordialità e una cortesia, ha creato una compagnia. Ha collegato tra loro un centinaio di persone attraverso vari gruppi, uno con un nome più bello degli altri: «Aiutiamoci con il sorriso». Non è nato da bigliettini imbucati nelle cassette della posta o da manifesti affissi in portineria, ma dal loro equivalente digitale: il social network di quartiere Nextdoor, che in tutta Italia mette in contatto i residenti della stessa zona. E conferma la trasformazione in corso, il rovesciamento dall’antipatia all’empatia nelle relazioni tra vicini: nelle ultime quattro settimane, rispetto al mese precedente, sulle bacheche virtuali la parola «disponibile» è stata usata il quadruplo delle volte, «gentilezza» è raddoppiata, «aiuto» si è moltiplicata per venti. È evidente che abbiamo necessità di una mano e, visti i divieti di spostarsi da un comune all’altro o all’interno del medesimo centro urbano, la accettiamo volentieri da chi gravita a qualche metro da noi.

«La prossimità genera fiducia. Perciò abbiamo lanciato la mappa della solidarietà, uno strumento attraverso il quale i nostri utenti possono far sapere a chi gli sta intorno che sono disponibili. È come dire: “io ci sono”» spiega Amedeo Galano, responsabile della community di Nextdoor per l’Italia. Non è puro utilitarismo: «A livello psicologico, anche solo la consapevolezza che esista qualcuno nei dintorni su cui contare, è un sollievo notevole. In questo momento così particolare, le persone stanno scoprendo il valore in precedenza poco apprezzato dato da chi, letteralmente, li circonda».

Se la tecnologia ha un merito in quest’emergenza, è di aggregare quello che altrimenti sarebbe disperso, sfumato, sfilacciato, difficilmente raggiungibile. Come Laserwall, una bacheca condominiale interattiva racchiusa in un tablet e supportata da una applicazione, che manda informazioni rilevanti agli inquilini dei singoli palazzi. Alcuni di questi pannelli hi-tech sono stati installati nel complesso residenziale Social Village Cascina Merlata di Milano: Steven, che vive nella torre b assieme alla compagna, al figlio di 14 mesi e al loro cane, ha scoperto dalla app che un vicino della torre g aveva bisogno di aiuto. Era in quarantena preventiva: «Sono andato a fargli la spesa» racconta «gli ho preso tutto quello che gli poteva servire. Un carrello pieno, oltre 100 euro di cibo. Ho lasciato le buste davanti alla porta. Era il minimo che potessi fare».

I gesti sublimi diventano routine. L’altruismo, da eccezione in agende strapiene di ordinari egoismi, nell’Italia del coronavirus viene elevato a consuetudine: «Si tratta di una dinamica comprensibile, in verità ricorrente. Paragonabile a ciò che accade quando un treno si ferma per ore in aperta campagna e si crea una comunità collegata al disagio. Ecco, stavolta il disagio è parecchio esteso e duraturo. E altrettanto lo sono i legami sussidiari che si stanno generando» ragiona Francesco Billari, demografo e sociologo, prorettore dell’università Bocconi di Milano.

C’è dell’altro, un elemento più intimo: «Aiutare un anziano, è come dare una mano ai propri genitori, che magari sono lontani». Quasi a compensarne la mancanza. Il sottinteso pare obbligato e inevitabile: non durerà. «Rimarrà qualcosa» corregge Billari «quando si sarà stati capaci di convogliare questo movimento spontaneo in una forma di associazionismo legato al territorio. Altrimenti, la generosità si scontrerà con la normalità, con il dirimpettaio che torna a essere una figura rivale, un elemento di potenziale disturbo con cui si tende a battibeccare. Spero che un barlume di tanta solidarietà possa sopravvivere, però ne dubito». L’amore verso il vicino di casa è eterno. Finché dura la quarantena.

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