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Dipingere per distrarsi dal mondo

Dipingere per distrarsi dal mondo

Stefano di Stasio è un protagonista appartato degli ultimi 50 anni. Con la sua ricerca creativa che procede tra grande tradizione e originale via surrealista. con simboli, sogni e visioni che accendono un’appassionante realtà parallela.


Un grande museo rende omaggio a un maestro della pittura, più volte tramortita nel corso dei decenni, e più volte riemersa, fino a essere riconosciuta come un linguaggio legittimo. Non era così chiaro né così sicuro, negli anni della formazione di Stefano Di Stasio, attraversati da avanguardie e ricerche sperimentali che sembravano aver bandito per sempre la pittura. Non era vero, non poteva essere vero, ma questa maledizione aveva colpito maestri della generazione precedente a quella di Di Stasio, come Pietro Annigoni, Gregorio Sciltian, Riccardo Tommaso Ferroni, artisti sopravvissuti, mal tollerati, fuori della storia. Ma artisti veri. Nella stessa famiglia fratelli potevano prendere strade diverse, essendo uno esaltato e l’altro esecrato o ignorato: Tancredi e suo fratello Romano Parmeggiani, Piero Gilardi e suo fratello Silvano «Abacuc», Giuseppe Penone e suo fratello Giovanni.

Per un ragazzo nato nel 1948 questi campi di battaglia lasciavano a terra morti come monito a non seguire la stessa strada. Intanto alcuni, come Gino Marotta, cominciavano a coltivare dubbi, a riabituare la mano a disegnare, su stimolo di Giovanna e Paolo Portoghesi per Apollodoro; e certamente dovevano sorprendere e determinare interrogativi e curiosità le parabole di artisti come Salvo e Carlo Maria Mariani, e Bruno d’Arcevia. Nel fatidico 1978 qualcuno poteva arrivare a pensare che il ritorno alla pittura fosse una strada più originale di qualunque sperimentazione. Era dunque nell’aria, ed era percepito da critici sensibili e consapevoli dell’arte antica come Maurizio Calvesi, e il compianto Italo Mussa, che definì i confini di una Pittura colta, oltre a Carlo Maria Mariani: Alberto Abate, Ubaldo Bartolini, Carlo Bertocci, Lorenzo Bonechi, Gérard Garouste.

Il rinato e concomitante interesse per la Scuola romana degli anni Trenta favorisce queste esperienze che non possiamo dire nostalgiche ma innovative e sperimentali, verso un ritorno della pittura che, per intanto, genera e definisce i cosiddetti Anacronisti. Sono pochi, tra i galleristi e i mercati d’arte, a capire questa posizione che si chiarisce con la conversione di Plinio De Martiis, essenziale in questo momento progettato in controtendenza. Di Stasio lo ricorda: «Di lì a poco Calvesi coniò quel termine di Anacronismo, e organizzò al riguardo mostre su tutto il territorio italiano fino ad arrivare alla Biennale del 1984, cosa che a Plinio fece piacere da una parte, ma dall’altra, visto il suo carattere assolutamente complicato, produsse in lui un distanziamento dall’ufficializzazione, che lo portò a una voglia di chiusura, di isolamento. Oltretutto la lettura “intimista”, di “ritorno all’ordine” che Plinio favoriva nel lavoro dei suoi pittori, da tempo mal si adattava alle spinte “surrealiste” e visionarie che invece volevo praticare nei miei quadri».

La storia è questa, e oggi al Mart abbiamo l’occasione di vedere, partendo dallo stesso ceppo, le due esperienze estreme: quella di Di Stasio e quella di Aurelio Bulzatti. Non c’è dubbio che Di Stasio ha colto perfettamente il nodo della questione, ed è importante che la sua mostra parta proprio da quell’autoritratto romantico e appassionato. L’autoritratto evoca la passione per la musica, il lavoro si sposta sul colore, e allora qui la musica può accompagnare la pittura, con il riferimento a un brano delle Kinderszenen di Robert Schumann nel titolo stesso della mostra: Da genti e paesi lontani. Ulteriore emozione pensare che, qualche anno prima, di Schumann ci aveva parlato, con grande passione, nelle sue lezioni universitarie, Francesco Arcangeli. Da cui l’effetto di sinestesia: il rifrangersi della musica dal pianoforte al paesaggio collinare infuocato, sul fondo.

Di Stasio inizia una vera rivoluzione, anche iconografica. Non è un pittore della realtà, è un pittore del sogno e del mito. Così si mostra nel 1979 nell’allegorica Cerimonia domestica. La diversità dei temi sfiora la pittura barocca. Ed ecco Autoritratto dopo Cristo (1980), con citazioni di Beccafumi e di caravaggisti nordici, Capriccio mistico e Celebrazione dell’Apparire, con evidenti allusioni alla pittura antica. Nel 1984, fedele alla sua poetica, cui Di Stasio attribuisce una finalità narrativa e apologetica, ecco Le strade di Edipo. Segue il neocaravaggesco A sera del 1986, con la candela come fonte di luce. Sono temi e dipinti di avvicinamento, a cavallo tra Realismo e Simbolismo, di chiaro carattere allegorico, come La via dell’acqua del 1988, con l’apertura lacustre, da Varenna verso Bellagio, per il dono di rose a una nuova Venere che sorge dalle acque, gesto gentile e innamorato, mentre il volgo è attratto da un Amor profano che mostra il seno e copre il volto, con impudica vergogna.

Con il nuovo decennio Di Stasio si esprime in alcuni potenti capolavori, di intenso realismo ma, nel contempo, esoterici: Dialogo sotterraneo (1991), nelle fogne di Roma, Incontro (1992), con il gioco delle parti di protervia e ritrosia. In Improvviso del 1997 ritorna il pianoforte, strumenti necessario, in un mirabile e domestico notturno rischiarato dai lampioni e da un tramonto infuocato, sul far della sera. Da lì al Surrealismo il passo è breve, Lingua segreta (2005) : il pittore che parla con gli uccelli. Di Stasio si avvia a una complessità narrativa, curiosa di una lettura psicoanalitica attraverso la pittura. Ecco allora La storia segreta di Edipo (2005), con chiaroscuri caravaggeschi, la ricorrente gamba con la ghirlanda di rose a spirale, il doppio punto di vista.

Di Stasio procede per allegorie. I suoi personaggi, come Nell’ombra (2006), perlustrano il mondo con una torcia per esplorare il buio, trovare tracce per un cammino difficile. Di Stasio ci mette davanti a uomini turbati e composti che cercano risposte, soluzioni, come in Un altro enigma per Edipo, dipinto misterioso. C’è un Edipo in abiti contemporanei alla ricerca di una soluzione all’enigma della sfinge, che ha la foggia di uno spaventapasseri. Invenzioni sognanti sono: Sotto lo stesso cielo e Siste viator, del 2012, inizio della florida stagione di vorticosi mutamenti, tanto che ogni opera appare come rebus da decifrare. La maturità non porta a formule ripetitive, ma a un progressivo ampliamento dei soggetti. L’intensa produzione del 2019 lo conferma: La notte del mago, Crocevia del puro folle, Venire alla luce. Non si vedevano dipinti così belli e misteriosi dai tempi di Alberto Savinio; e non c’è alcuna concessione alla nostalgia, in Di Stasio, quanto l’affermazione del suo buon diritto di riprendersi i sogni di René Magritte. L’insorgenza neofigurativa del 1978 non era una moda ma una necessità, che Di Stasio ha condiviso, in quasi mezzo secolo, con Luigi Serafini.

Non si trattava di una ricerca intimistica come quella di Bulzatti o della nostalgia della bella pittura come in Lino Frongia, ma di urgenza dei sogni. Per la produzione più recente, dal 2020, la sua figurazione si manifesta in campiture e segmenti geometrici che delimitano le composizioni. Ritorna il mito di Edipo, la cui cecità genera le visioni. Sono specchi di sogni, sono un potenziamento della realtà attraverso la fantasia. Non era forse cieco Tiresia? Non era forse cieco Borges? Il mito greco trova nuove rappresentazioni. L’anima ritorna, come gli dèi imperturbati. Queste creazioni di mondi si moltiplicano, gli spazi si intersecano: in Luci della sera e, soprattutto, in Orizzonti. L’opera di Di Stasio è un viaggio senza fine, dove s’incontrano diversi miraggi e incantesimi, come nell’Orlando furioso. Ed egli ci invita a guardarli, a cercarne il mistero, a leggergli dentro. Per questo ci induce a fermarci: Siste viator.

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