Anche solo parlare di Stato di polizia perché le forze dell’ordine impediscono che dei giovani si stordiscano di alcol e droga lo ritengo un’ignominia, una mancanza di rispetto per tutte le Masha Amini uccise in Iran solo perché volevano essere libere.
Nella rubrica delle Lettere di Panorama c’è anche quella di Madjid Bazeli, chirurgo iraniano che vive in Italia e lavora in provincia di Torino. Il dottore scrive della sua terra, di ciò che sta accadendo in centinaia di località dell’Iran. A ribellarsi alla dittatura degli ayatollah sarebbero già quasi 200 tra città e province. Una protesta che ha per protagoniste le donne, in particolare le più giovani, ovvero quelle che non hanno conosciuto la libertà, ma la sognano. «Una generazione di donne, intelligente e coraggiosa» scrive Bazeli «ha potuto coinvolgere e galvanizzare anche l’indignazione degli uomini, che l’hanno affiancata contro il regime». I fatti sono noti: una ragazza di appena 22 anni, Masha Amini, è stata picchiata e torturata dalla polizia religiosa per la sola «colpa» di aver indossato male il velo: dall’hijab spuntava una ciocca di capelli. Il barbaro assassinio ha infiammato le piazze e nonostante la repressione abbia fatto altre vittime, migliaia di giovani non si arrendono e ogni giorno le contestazioni crescono. Ma il dottore di Torino non denuncia solo la violenza di un totalitarismo religioso crudele, che non esita a usare le forze speciali contro ragazze inermi, se la prende anche con «le coscienze addormentate delle istituzioni occidentali». Difficile dargli torto: da quando la rivolta è iniziata, a parte la solidarietà di rito, le democrazie europee, ma anche quella americana, paiono essersi dimenticate di ciò che sta accadendo a Teheran. Forse distratti dalla guerra in Ucraina, non c’è governo o autorità internazionale che davvero abbia deciso di fare qualche cosa oltre alle dichiarazioni di prammatica. Lascio ancora la parola a Bazeli: «Le donne e ragazze iraniane hanno intrapreso un percorso irreversibile per la libertà ed è ingiusto che tale lotta non venga appoggiata dai rappresentanti della culla democratica occidentale. Bisogna dare valore alla loro dignità, scrigno inviolabile, e rendere loro quella identità perduta».
Che dire? Avevo vent’anni quando un’alleanza fra le forze di opposizione alla monarchia di Reza Palhavi aprì la strada alla Repubblica islamica sciita. I movimenti religiosi, uniti a marxisti e liberali, agevolarono un regime forse più dispotico del precedente. L’ayatollah Ruhollah Khomeini tornò in patria dal suo esilio a Parigi fra gli applausi della sinistra terzomondista, che esultava per la caduta del tiranno appoggiato dagli americani. Quell’uomo con la barba folta e la lunga tunica pareva un profeta, una specie di Nelson Mandela islamico, ma a differenza del leader sudafricano che trascorse 27 anni in carcere e non in un Paese tollerante come la Francia, non pacificò l’Iran. A Panorama, fino a qualche anno fa lavorava un collega che mi raccontava di aver scritto articoli entusiastici in favore della rivoluzione khomeinista. Per lui si trattava di una guerra fra il Male, cioè le multinazionali americane, e il Bene, il popolo che lotta per la libertà. Visto come andarono le cose, quando me ne parlava ancora se ne pentiva, vergognandosi di quegli osanna. Non vedo e non sento da molto tempo quel collega, ma se avessi la possibilità di parlargli, a lui che per anni ha militato nei movimenti e nelle redazioni di sinistra, gli chiederei se la comunità politica a cui per lungo tempo ha appartenuto non debba vergognarsi ora, per il silenzio che osserva mentre ragazze innocenti vengono trucidate. Non credo serva molto pentirsi per l’entusiasmo che salutò l’arrivo di Khomeini a Teheran, ma per l’indifferenza di fronte al massacro che si perpetua oggi sì, c’è da provare disgusto. In particolare, mi colpisce il cicaleccio dei giorni scorsi su una misura adottata dal nuovo governo Meloni.
Quando il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha firmato un decreto per impedire l’occupazione abusiva di terreni e stabili privati per organizzarvi rave party, ossia feste abusive a base di alcol e droga, la sinistra ha parlato di Stato di polizia, di criminalizzazione del dissenso, di sanzioni contro la gioventù. Lo confesso: leggendo le dichiarazioni di Enrico Letta, di Giuseppe Conte e di altri esponenti dell’opposizione ho provato un senso di disagio. Possibile, mi sono chiesto, che non abbiano ritegno nell’usare parole gravi per descrivere qualche cosa che in fondo è già previsto in tanti altri Paesi, ovvero il reato di occupazione abusiva al fine di organizzare un evento in cui si commettono reati come diffondere stupefacenti? Si può davvero parlare di regime se la polizia impedisce che migliaia di giovani sotto effetto di droghe prendano d’assalto un’azienda per fare i loro comodi? Come si fa a sostenere che evitare un raduno illegale criminalizzi il dissenso e penalizzi i giovani?
Il regime è quello degli ayatollah, quello che picchia e uccide una ragazza perché non si copre il capo come impone la religione. Quella sì è la dittatura dei manganelli, un fascismo criminale che i giovani non li sanziona, li assassina. E dunque, anche solo parlare di Stato di polizia perché le forze dell’ordine impediscono che dei giovani si stordiscano di alcol e droga lo ritengo un’ignominia, una mancanza di rispetto per tutte le Masha Amini uccise in Iran solo perché volevano essere libere. «Bisogna dare valore alla loro dignità» ha scritto Madjid Bazeli. Sì, ma per dare valore alla dignità delle vere vittime, la nostra classe politica una dignità la dovrebbe avere.
