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Sgarbi: «Difendo la Preghiera come valore universale»

Sgarbi: «Difendo la Preghiera come valore universale»

Lo spunto è l’episodio di cronaca avvenuto in Sardegna, con l’insegnante di scuola primaria che viene sanzionata perché ha fatto recitare agli alunni l’Ave Maria e il Padre nostro. Ci porta a riflettere sulle nostre radici, che nel dialogo con il divino hanno una ragione irrinunciabile. Negare questa realtà profonda ci impoverisce come esseri umani.


Da Nuoro, dopo avere sfiorato le dolcissime maternità, sacre, di due artisti quali Francesco Ciusa e di Costantino Nivola, allo Spazio Ilisso, e ritrovato lo stesso universale pensiero nelle fotografie di una Sardegna intatta, di terre, tradizioni e riti, in Toni Schneider, e in quelle contemporanee, del sacro senza tempo, nei Dolmen di Olivo Barbieri, tersi e prosciugati fino all’essenza, esposte al museo Man, andiamo a Lollove, frazione così distante da sembrare in un altro mondo, e benché accolta tra «i borghi più belli d’Italia», borgo ospite in verità, classificato tra i Paesi «ruderizzati», apparentemente abbandonato e quasi senza luce nella notte di luminose stelle.

Gli anziani ormai perduti, nelle leggende su quel luogo arcano, narravano che una o più francescane «penitenti», chiuse nel monastero di via Bixio, contiguo alla tardo-gotica chiesa della Maddalena, consumarono rapporti carnali con pastori locali. Scoperto lo scandalo, le monache innocenti, sdegnate per il comportamento delle consorelle, abbandonarono il villaggio con una maledizione: «Lollove sarai come l’acqua del mare, non crescerai né mostrerai (di crescere) mai!». E infatti il borgo è rimasto tale, resistendo al destino di scomparire, con sempre meno abitanti, applicato all’agricoltura e all’allevamento.

Per queste condizioni, Lollove ha ispirato artisti e scrittori: Grazia Deledda vi ambientò La madre (1920), che racconta la relazione peccaminosa e proibita di un giovane prete e della bella Agnese, amanti perduti nel borgo. Nella leggenda, Loy (nome aragonese del paese fino al XIX secolo) nacque prima e fu più grande di Nuoro. Forse nel Medioevo, quando, nelle valli dei fiumi Cedrino e Sologo, Loy era il più sviluppato di tanti villaggi.

Comune fino alla metà dell’Ottocento, ora è l’unica frazione di Nuoro. Nel 1950 scese a 400 abitanti, oggi ne conta 14. Ancora si anima nelle feste religiose: per la antica patrona santa Maria Maddalena (a fine luglio), per l’attuale patrono San Biagio (a inizio febbraio), per San Luigi dei Francesi (a fine agosto), per Sant’Eufemia (a metà settembre): Gli ultimi tre sono santi curatori: i pellegrini arrivavano a Lollove in cerca di guarigione. Anche a novembre il borgo rivive, in occasione di Vivilollove, festa profana di «Autunno in Barbagia». Nel resto dell’anno, si avvertono in lontananza rumori di capre, di cavalli, di gatti. Non c’è medico, non scuole, non ufficio postale. Non esistono negozi e bar. Solo nel 1995 è arrivata l’energia elettrica. Il prete arriva soltanto la domenica.

Lollove in Sardegna

Sgarbi: «Difendo la Preghiera come valore universale»
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Il paese di Lollove in SardegnaiStock

Lollove non è un paese fantasma perché tenacemente ci vive ancora qualcuno, come nei villaggi rurali medioevali della Sardegna centrale. Arriviamo alle 9 di sera. E troviamo, al caldo delle case, alcuni nuovi amici, subito affettuosi, circa la metà dei pochi abitanti stabili residenti di Lollove: Lia Nioi e sua figlia, Dino Tedde e sua moglie Carmela Perrone, Giuseppe e Paola Borra con la madre Elvira Incollu. Con quest’ultima, mia coetanea, incredula, parlo della maestra di San Vero Milis, Marisa Francescangeli, che è stata sospesa per aver fatto comporre una collana per il Rosario, e recitare l’Ave Maria. In che strano mondo viviamo! La maestra non smentisce, non si pente. Ammette la sua colpa; i commentatori sono tiepidi e prevenuti, il ministro tace, i suoi dirigenti ammoniscono. Tutto si è consumato fra Natale e Pasqua, tra feste, celebrazioni, e vacanze scolastiche, stabilite dalle ricorrenze religiose. E mai tante preghiere.

La disciplina è fatta di abitudini, di esercizio. Niente come la preghiera comporta disciplina, ripetizione, come imparare a memoria le poesie. Si comincia con le preghiere, e non nell’ora di religione, ma per rendere Dio una presenza quotidiana. La Madonna, ave Maria, è la madre: ripensatene i versi. «Ave, o Maria, piena di grazia, il Signore è con te. Tu sei benedetta fra le donne e benedetto è il frutto del tuo seno, Gesù. Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte. Amen». Parole semplici e purissime. Una poesia.

Qualcuno punirebbe un insegnante per aver fatto recitare questi versi di Sandro Penna? «Felice chi è diverso / essendo egli diverso. / Ma guai a chi è diverso / essendo egli comune». Sono una preghiera. Anzi, un monito. Contro chi ostenta la propria diversità. Non dobbiamo subirlo ogni giorno, nella pubblicità, nella televisione, senza sanzioni? La libertà dell’insegnante è sacra, perché egli deve trasmettere il sapere. Lo studente deve apprendere. Poi, se il sistema di conoscenza non lo persuade, liberamente ribellarsi. A cosa, se no? Se non sa?

Il Padre nostro è ancora più chiaro e fondante. «Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano, e rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male. Amen». Solo per l’amen capiamo che è una preghiera. Altrimenti ne intendiamo la forza, il sostegno. Per anni i teologi e i catechisti hanno discusso sulla conclusione, finalmente mutandola, nella ambiguità che legittimerebbe un’azione disciplinare: «Non indurci in tentazione». E quale subdolo padre lo farebbe? Quale severità vorrebbe esercitare? Ecco allora il più conveniente, e carico di misericordia: «Non abbandonarci alla tentazione».

Prendiamo ancora un grande esempio: «L’eterno riposo dona loro, o Signore, e splenda ad essi la luce perpetua. Riposino in pace. Amen». È una preghiera, un lamento che viene dal cuore: il concetto del ricordo e dell’amore che lega ognuno di noi ai propri cari, che non ci sono più. Sono parole inevitabili, come il respiro. Il respiro per i morti. Proibirle? Non insegnarle? Sembrano invocazioni semplici, necessarie, e si imparano subito a memoria. Cosa c’entra la scuola laica? È la testimonianza della condizione umana, della precarietà e della speranza. Si recita in suffragio dei defunti soprattutto appena svegli al mattino e prima di coricarsi la sera, insieme al Padre nostro, l’Ave Maria e all’Angelo custode. Così ha sempre fatto, e ci insegnato a fare, mio padre prima di addormentarci, alla fine di un giorno operoso. In attesa del prossimo. Lui farmacista, che curava i corpi, e coltivava la propria anima e la nostra.

Il padre è il primo maestro: sanzionare anche lui? Una preghiera accorata l’Eterno riposo, nel ritmo sommesso e dolente, e allo stesso tempo deciso, forte. Lo stesso delle «Messe da requiem» composte da Orlando di Lasso, Mozart, Verdi, Fauré, che iniziano con l’introito gregoriano del Requiem. L’Eterno riposo deriva dal IV libro di Esdra (II, 33-48), apocrifo dell’Antico Testamento: «…expectate pastorem vestrum, requiem eternitatis dabit vobis, quoniam in proximo est ille, qui in finem saeculi adveniet. Parati estote ad praemia regni, quia lux perpetua lucebit vobis per aeternitatem temporis». Non è sufficiente la densità della sua storia a farlo insegnare? Non è sufficiente l’intensità del suo risalire dal profondo della nostra sensibilità di sopravvissuti, per dirlo all’unisono con i nostri allievi? Cosa ci deve unire, se non si intende che essere cristiani vuol dire essere uomini? Donna Elvira di Lollove acconsente, e rilancia con convinzione.

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