La splendida Galleria Umberto I da anni è lasciata nel degrado più assoluto. Un crimine contro il diritto (di tutti) alla bellezza.
Nel 2022 dobbiamo ancora soffermarci a spiegare l’importanza delle gallerie all’interno delle città? Non si è ancora capito che sono luoghi di importantissima rilevanza culturale, artistica, civile, economico-commerciale, sociale, di incontro e scambio delle persone, di dialogo, di conoscenza? Chi governa la cultura da Roma e la città di Napoli (Comune e Regione compresa) evidentemente non l’ha ancora capito se hanno permesso di trasformare la Galleria Umberto, celebrata anche recentemente, e giustamente, da Alberto Angela in televisione, dal «salotto» di Napoli alla «latrina» di Napoli, invasa ormai dal fetore di urina.
Un peccato mortale. Siamo rimasti colpiti da alcuni articoli di quotidiani che hanno richiamato l’attenzione sulla situazione di degrado totale in cui versa uno dei monumenti più importanti di quella che nell’Ottocento venne chiamata la «poetica dell’architettura del ferro». E sapete perché c’è da rimanere indignati? Certo per motivi attinenti alla responsabilità politica di chi lascia pezzi del nostro patrimonio artistico-culturale in queste indegne condizioni. Certo perché, comunque, la Galleria Umberto aveva un valore commerciale importante per Napoli.
Ma più di tutto indigna il fatto che quando viene a mancare un luogo di bellezza in una città, a rimetterci, a farne le spese sono – anche in questo caso – i più deboli, quelli che se non vedono la bellezza dove vivono non hanno possibilità di vederla altrove come può fare chi, invece, può andare ad ammirarla in altre città. E non è una questione marginale, secondaria, di importanza relativa.
Tutti abbiamo diritto a godere delle bellezza delle opere pubbliche e della bellezza in generale. Non è un diritto trascurabile perché l’esercizio di questo diritto porta conseguenze sociali ed educative importanti. Vale lo stesso discorso delle periferie. Chi vive nel bello, in un luogo curato, parte già da una condizione di vantaggio per concepire la vita in modo giusto e non sbagliato. Insomma la bellezza ha o non ha una funzione educativa e sociale?
Se sì, il sindaco Manfredi, il governatore Vincenzo De Luca e il ministro Dario Franceschini facciano in fretta. Non c’è da ricostruire il Partenone da zero, si tratta di opere di ordinaria e straordinaria manutenzione. E se ce n’è bisogno dappertutto, a Napoli ce n’è ancora di più perché la città e i napoletani che conducono una vita senza macchia se lo meritano. La storia, a volte, fa brutti scherzi. Napoli lanciò una specie di sfida a Milano che aveva costruito la Galleria Vittorio Emanuele e costruì la Galleria Umberto I in tempi record, tre anni, tra il 1887 e il 1890 (per quella milanese ne avevano impiegati 10), grazie agli architetti e agli ingegneri napoletani Emmanuele Rocco, Antonio Curri ed Ernesto di Mauro e all’appaltatore Società Esquilino di Roma.
Una vera gloria e un vanto cittadino, dunque. Fu realizzata per risanare una situazione di degrado del Rione Santa Brigida raso al suolo, un’area malfamata, sovraffollata e malsana al punto che all’epoca fu indicata come uno dei luoghi di origine del colera (in uno di quegli edifici sul finire del Settecento abitò Johann Wolfgang Goethe), per trasformare quel luogo in un elegante salotto di Napoli. E così fu.
Lì nacque il primo Café Chantant d’Italia, il salone Margherita, lì si insediarono i negozi più belli, i caffè più eleganti, lì per anni lavorarono gli sciuscià (dall’inglese shoeshiner, lustra scarpe) che dettero il titolo anche al celebre film di Vittorio De Sica, lì si trovarono per anni musicisti che incontravano impresari e trovavano lavoro per serate, concerti, lì ci fu la prima sala cinematografica della città (e una delle prime italiane), e furono proiettati i film dei fratelli Lumière. Non sarà un caso che sul fastigio di ingresso della galleria troviamo Commercio e Industria semisdraiati ai lati della Ricchezza, certamente miti della società borghese di fine Ottocento, ma anche simboli di ciò che avveniva sotto le arcate magnifiche di quella galleria.
Nel 1890, per l’inaugurazione della Galleria Umberto i napoletani dedicarono – ovviamente – una canzone che si intitolava Vide Napole che sape fa!. Facciano lo stesso oggi coloro che hanno responsabilità della città. Non facciano tornare la memoria del Rione Santa Brigida, sulle cui macerie fu costruito questo esempio di architettura del ferro ottocentesco che viene associato alla Galéries d’Orléans di Parigi e a quella Vittorio Emanuele di Milano. Il sindaco di allora che volle questo risanamento si chiamava Nicola Amore. Ora si chiama in modo diverso ma mostri lo stesso Amore per Napoli. Lo può fare: ha la cultura, la sensibilità e può trovare i mezzi.
