Ribellarsi al «supermercato digitale» che tutto riduce a parole anonime composte su uno schermo? Ci sarebbe, per esempio, la Slow Mail…
Quando avete scritto l’ultima lettera a mano? Pensateci. Non vi viene in mente? Ovvio: avrete scritto una mail. O, peggio, un messaggio WhatsApp. Magari in chat. La cartolina? Oggi fa ridere. Se ne parlo ai miei figli chiamano l’ambulanza. O, peggio, il museo della preistoria per farmi esporre di fianco ai dinosauri. Oggi si fa il selfie. Il post Facebook. Il video Instagram. Chi è che si mette ancora a vergare parole in corsivo, chi è che va a comprare in tabaccheria un francobollo, per leccarlo e appiccicarlo lì nel suo apposito spazio? Mittente e Cap, questi sconosciuti. Cassette delle lettere ormai con le ragnatele. Tanto è vero che le Poste italiane hanno annunciato che ne elimineranno altre 20 mila. Ne resteranno poco più di 17 mila, ma chissà per quanto ancora. Pure il loro destino è scritto. E non a mano, purtroppo.
Anche questo, nel suo piccolo, segna la fine di un’epoca. Le cassette delle lettere così come le conosciamo oggi, scrive Pierangelo Sapegno sulla Stampa, «rosse, con due feritoie e lo sportello che fa clac, sono entrate in funzione nel 1961». Però «le prime buche postali sono comparse nel 1632, lungo le vie dello Stato pontificio». Erano di pietra, con bordature in metallo e iscrizioni scolpite. A Milano, negli anni Cinquanta le cassette erano bicolori, verde e panna, per armonizzarle con i colori del tram. Ora tutta questa storia è destinata a sparire. E da un certo punto di vista è inevitabile: vi ricordate l’ultima volta che vi siete avvicinati a una buca delle lettere?
Eppure è bello ricevere nella cassetta della posta qualcosa che è stato scritto a mano proprio per noi. Confesso che quando in redazione arrivano (ogni tanto arrivano ancora) quei fogli un po’ stropicciati, con grafie incerte e svolazzi d’inchiostro, quasi mi commuovo. Cerco sempre di rispondere. Perché dietro una lettera scritta a mano c’è più tempo, c’è più pensiero, e dunque c’è più cuore. Non un clic e via. Non una digitazione d’impulso. Non un messaggino compilato con le parole del suggeritore automatico o con gli emoticon che sono soltanto un pallido surrogato di umanità. No: c’è un foglio bianco. Poi c’è una penna. Poi una busta. Poi un francobollo. Ci sono il gesto dello scrivere e il gesto dello spedire. C’è un mondo che non vorremmo vedere sparire.
Perciò bisognerebbe davvero istituire uno «slow mail». A me non era venuto in mente. Ma al nume tutelare, che su questi argomenti è nostalgico come il suo protetto grillo, sì. L’idea infatti è sua. Idea giusta: da anni andiamo lodando lo «slow food», la riscoperta del mangiare lento e antico, contro la moda inarrestabile del fast food. Perché non organizzare anche un movimento per salvare lo «slow mail» contro la moda inarrestabile del fast mail? Perché non organizzare corsi, scuole, convegni per raccontare al mondo quanto era bello scrivere una cartolina? E quanto può esserlo ancora? Perché non celebrare la superiorità del francobollo sul tasto invio dell’email?
Credetemi: bisognerebbe organizzare un grande convegno Slow Mail per riunire i difensori dello scrivere a mano, delle buste e della posta. Per esempio coloro che a Milano da quasi vent’anni organizzano il festival delle lettere e pare abbiano già raccolto 25 mila epistole. Poi la scrittrice giapponese Ito Ogawa che ha recentemente dichiarato (luglio 2023): «La felicità è una lettera scritta a mano». Poi quell’imprenditore di Castagnito d’Alba che qualche tempo fa ha scritto settemila lettere a mano per vendere nocciole. Poi vari psicologi dell’età evolutiva che raccontano quanto è importante per i ragazzi scrivere a mano. E ci potrebbe stare anche la testimonianza della famiglia di Padova che nei giorni scorsi ha ricevuto la lettera spedita da un loro nonno che era sul fronte russo 81 anni fa: nessuna mail, io credo, potrà mai dare l’emozione di quel pezzo di carta ingiallito che ha attraversato i decenni…
Ma la vera guest star del primo convegno Slow Mail italiano non può che essere Michele Comi, una guida alpina della Valmalenco che da qualche mese accetta di portare in montagna soltanto chi si prenota scrivendo lettere a mano. «Solo posta di carta, scritta a mano, calma e inattesa», dice sul suo sito. E spiega che questo è un «atto di ribellione» contro il «supermercato digitale» delle escursioni in vetta, contro la velocità di chi clicca senza sapere nulla di dove andrà e con chi andrà, spinto solo dall’ansia moderna di consumare tutto rapidamente. «Ai tempi di mio nonno», dice la guida alpina, «si faceva così: prima di andare in montagna ci vuole tempo per conoscersi. Per questo bisogna scriversi a mano». In effetti, a pensarci, scrivere a mano e spedire per posta oggi è davvero un atto rivoluzionario. Quasi quasi lo faccio anch’io. E per questa rubrica rinuncio alla mail. Se trovate la pagina bianca, sapete perché.