Un’interpretazione contemporanea che risale dalle visioni infernali verso l’illuminazione del Paradiso. Tra incubi nucleari e tensione verso l’assoluto, a Roma va in scena uno straordinario percorso. Dove installazioni e fotografie esaltano il messaggio al di là del tempo del poema.
«Non sappiamo quando moriremo e quindi pensiamo alla vita come a un pozzo inesauribile. Eppure tutto accade solo un certo numero di volte. Quante volte ricorderemo un certo pomeriggio della nostra infanzia, un pomeriggio che è così profondamente parte di noi che non potremmo nemmeno concepire la nostra vita senza? Forse quattro o cinque volte, forse nemmeno. Quante volte guarderemo sorgere la luna piena? Forse venti. Eppure tutto sembra senza limiti». Con questa consapevolezza, quella di Paul Bowles nel rimeditare le vicende delle diverse vite nel Tè nel deserto, Raffaele Curi, nel versatile spazio della Rhinoceros Gallery della Fondazione Alda Fendi a Roma, ritorna al Dante letto, in un pomeriggio della sua infanzia, con suggestioni mai più dimenticate, cresciute dentro di lui fino a configurarsi come mondi diversi, altri mondi, nel suo «private dream».
Io da un sogno della mia infanzia, dai verdi paradisi degli amori infantili, ho derivato l’idea dell’inferno verde, identificato in quel solo colore, come un incubo che il tempo non ha mutato o attenuato. L’inferno verde. Con analoga ossessione Curi vede il Canto XIII dell’Inferno, un luogo non solo inameno, ma invivibile per colpa degli uomini che lo abitano e l’hanno ridotto come lo vediamo: uno scenario di distruzione come i luoghi inariditi dopo gli attacchi nucleari.
Il Canto XIII dell’Inferno è ambientato nel secondo girone del settimo cerchio dove sono punite le anime dei violenti contro se stessi, nella persona (i suicidi) e nelle cose (i dissipatori). È un bosco fitto, buio, tetro, terrificante, dove non crescono piante e fiori ma solo intricati e neri cespugli, dove abitano mostruose creature come le Arpie e le cagne infernali.
Suicida fu Pier della Vigna, che alla corte di Federico II di Svevia era notaio della cancelleria. Fu uno dei poeti più notevoli della scuola siciliana ed ebbe cariche importanti, giudice della Curia regia, «protonotaro», logoteta del regno, diplomatico presso la corte papale e i comuni del Nord Italia.
Nel 1249 venne accusato di tradimento per i suoi rapporti con Papa Innocenzo IV. Non sappiamo quanto siano fondate queste accuse; per alcuni si trattò di una congiura di cortigiani invidiosi. Ciò che sappiamo per certo è che Pier della Vigna fu incarcerato a Pisa e accecato a Pontremoli, nella piazzetta di San Gimignano. Poco dopo sarebbe morto, probabilmente suicida. In quanto vittima dell’invidia altrui, e perciò ingiustamente condannato, Pier della Vigna ha, nel XIII canto dell’Inferno, il ruolo quasi di alter ego di Dante, «exul immeritus».
Proprio per questa identificazione di esule immeritato con l’anima dannata Dante è incline – pur condannando il suicidio – a giustificarne il gesto estremo, come protesta contro la malvagità dei potenti. Dal momento che hanno rinunciato al prezioso dono della vita umana, i suicidi sono trasformati in piante, le cui frasche sono tormentate dalle Arpie; nel giorno del Giudizio universale non potranno rivestire i loro corpi (contrappasso per antitesi). La loro vita eterna è desertificata: «Non era ancor di là Nesso arrivato, / quando noi ci mettemmo per un bosco / che da un sentiero era segnato. / Non fronda verde, ma di color fosco; / non rami schietti, ma nodosi e ‘nvolti; / non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco[…]. / Però disse ‘l maestro: “Se tu tronchi /qualche fraschetta d’una d’este piante, / li pensier c’hai si faran tutti monchi”. / Allor porsi la mano un poco avante, /e colsi un ramicel da un gran pruno; / e ‘l tronco suo gridò: “Perché mi schiante?”. / Da che fatto fu poi di sangue bruno, / ricominciò a dir: “Perché mi scerpi? / non hai tu spirto di pietade alcuno? / Uomini fummo, e or siam fatti sterpi: / ben dovrebb’esser la tua man più pia, / se state fossimo anime di serpi”».
Il paesaggio dell’Inferno evoca i luoghi convolti delle città radioattive dopo i bombardamenti nucleari. La descrizione dantesca indica l’inaridimento delle foreste pietrificate in analogia con i disastri del ventesimo secolo, nell’interpretazione di Curi. L’uomo è stato in grado di crearsi il suo inferno, e alcuni luoghi estremi del mondo, Hiroshima, Chernobyl, Sellafield, Harrisburg, rivelano nel loro destino l’allarme per ciò che l’uomo può fare contro se stesso.
Il suicidio di Pier Della Vigna diventa metafora del suicidio dell’umanità, nella sperimentazione della ricerca contro l’uomo, e nonostante la volontà dell’uomo. Chernobyl e Harrisburg non sono luoghi di tragedie volute dall’uomo, ma incidenti, accanimenti preterintenzionali. A Chernobyl, i test di sicurezza su un reattore nucleare, per ottenerne il raffreddamento, hanno causato l’incidente che portò all’esplosione del reattore. Ne fuoriuscì una nuvola di materiale radioattivo che ricadde su vaste aree intorno alla centrale, contaminandole pesantemente. Perché? Per imprudenza? Per insufficiente sicurezza?
Le Chernobyl del nostro tempo sono una somma di vasti errori e peccati che generano l’inferno. L’angoscia è la stessa delle parole dantesche. Buio, notte, pianti. È il destino incolpevole di uomini, vittime di errori e imprudenze. Ma l’uomo, com’è capace di abiezioni e di terribili destini, così si libera dalla sua sfida all’onnipotenza di Dio, contemplandolo. Anche a rischio di non vedere, come nell’esperienza mistica del santo spagnolo Juan de la Cruz: «Più salivo in alto / più il mio sguardo s’offuscava, / e la più aspra conquista / fu un’opera di buio; / ma nella furia amorosa / ciecamente m’avventai / così in alto, così in alto / che raggiunsi la preda». Dal panorama desolato, senza vita e senza luce, dell’Inferno, siamo proiettati nella dimensione del Paradiso, in un’apoteosi di luce, al culmine del percorso di Dante, nel sublime Canto XXX, quello della visione di San Bernardo che, per l’occasione, è illustrata da una meravigliosa miniatura di Giovanni di Paolo, il grande pittore senese del Quattrocento. Dante, accompagnato da Beatrice, vede in solitudine la luce verso la quale Bernardo prega, quella Vergine che chiama subito «termine fisso d’etterno consiglio».
Ecco i versi che Giovanni di Paolo illustra: «Indi a l’etterno lume s’addrizzaro, / nel qual non si dee creder che s’invii / per creatura l’occhio tanto chiaro». E qui si apre una definizione sensoriale del piacere della contemplazione divina, senza precedenti. Con gli occhi fissi nella visione, il Dante-viaggiatore continua a entrare sempre più chiaramente nella mente di Dio, dove tutto è perfetto, ammirando cose impossibili da dire con le parole: «Qual è colüi che sognando vede, / che dopo ‘l sogno la passione impressa /rimane, e l’altro a la mente non riede, / cotal son io, ché quasi tutta cessa / mia visïone, e ancor mi distilla / nel core il dolce che nacque da essa. / Così la neve al sol si disigilla; / così al vento ne le foglie levi / si perdea la sentenza di Sibilla. / O somma luce che tanto ti levi / da’ concetti mortali, a la mia mente / ripresta un poco di quel che parevi, / e fa la lingua mia tanto possente, / ch’una favilla sol de la tua gloria / possa lasciare a la futura gente». Questa sensazione sarà invero difficile da raccontare: « Oh quanto è corto il dire e come fioco / al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi, / è tanto, che non basta a dicer “poco”».
È questa la forza di Dante. E quanto più è alta l’emozione, tanto più non si può dire. Il cielo ce la cela. La luce è vita, la luce è Dio: «A l’alta fantasia qui mancò possa; / ma già volgeva il mio disio e ‘l velle, / sì come rota ch’igualmente è mossa, / l’amor che move il sole e l’altre stelle».