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Pregare vuol dire anche respirare

Pregare vuol dire anche respirare

Attenzione, perseveranza, pazienza, rispetto delle forme: c’è tutto questo nella pratica religiosa più individuale e al tempo stesso più collettiva. E la scienza ne riconosce gli effetti positivi, oltreché sull’anima, sul corpo. A partire dal ritmo del soffio vitale…


Guai a chi smette di pregare. Perché la preghiera fa parte di quei riti e cerimonie «capaci di far apparire la vita in chiave festosa e magica, mentre la loro scomparsa la dissacra e la profana, rendendola mera sopravvivenza». Le preghiere servono a «reincantare il mondo», e a sviluppare «un’energia curativa in grado di contrastare il narcisismo collettivo». Se a esprimere questi concetti fosse un Papa o un vescovo, non ci sarebbe poi da stupirsi troppo, anche se ultimamente pure il clero sembra preferire le certezze «scientifiche» alla contemplazione divina.

A colpire è il fatto che l’elogio della preghiera provenga da un filosofo decisamente laico, il quale per di più non appartiene alla tradizione di pensiero occidentale (e dunque cristiano) in senso stretto. Si tratta di Byung-Chul Han, uno degli autori di maggior successo degli ultimi anni, critico spietato della modernità e della globalizzazione, molto amato specialmente nel mondo progressista.

In un saggio al solito breve ma denso intitolato La scomparsa dei riti (Nottetempo), Han parte da un presupposto difficilmente contestabile: stiamo perdendo i riti, cioè le «azioni simboliche» che «tramandano e rappresentano quei valori e quegli ordinamenti che sorreggono una comunità». Perché accade? Perché i riti hanno caratteristiche che vanno in senso contrario rispetto alla modernità frenetica in cui siamo immersi. I riti richiedono ripetizione, attenzione, quiete, forme precise che vanno rispettate.

Oggi, invece, non si ripete: al massimo si consumano serialmente i prodotti. Si passa di corsa da un’informazione all’altra, si divorano bulimicamente le serie televisive, le notizie, i beni. Pregare, invece, richiede intensità, silenzio, quiete e rispetto di un ordine. Tutti elementi a cui siamo diventati insofferenti. Da qualche anno, per esempio, crescono i disturbi da deficit dell’attenzione, di cui soffrono soprattutto i bambini abituati a tenere tablet e smartphone fra le mani fin dalla più tenera età.

Le pratiche religiose, al contrario, richiedono attenzione profonda, anzi educano all’attenzione. «Non è un caso che la parola religione derivi da relegere, prendere nota» scrive Han. «Ogni pratica religiosa è un esercizio d’attenzione, e il tempio è un luogo di profonda attenzione. Secondo Malebranche, l’attenzione è la preghiera naturale dell’anima. Oggi l’anima non prega, produce sé stessa senza sosta». Ecco il primo beneficio della preghiera, valido per tutti: ci insegna a essere attenti, a concentrarci.

«Oggigiorno molte forme di ripetizione come l’imparare a memoria vengono tacciate di opprimere la creatività, l’innovazione eccetera» continua Han. «Imparare a memoria in francese si dice apprendre par coeur. È evidente le ripetizioni, da sole, arrivano al cuore». A pensarla così erano personaggi che non potrebbero essere più lontani dalla visione di Han: i monaci cristiani d’Oriente, i Padri che praticavano la preghiera esicastica o preghiera del cuore. Come spiega Francesco Comandini in un bel libro intitolato Meditazione cristiana (Libreria editrice fiorentina), i monaci orientali si sforzavano di purificare il cuore, mantenendolo in uno stato di vigilanza costante. «L’attenzione (prosoché) necessaria a favorire la vigilanza del cuore si esercita attraverso la preghiera».

Attenzione, dunque. E un’altra condizione fondamentale: il silenzio. «Il silenzio fa ascoltare» scrive Byung-Chul Han «va di pari passo con una particolare ricettività, con un’attenzione profonda e contemplativa. L’odierna coazione a comunicare fa invece sì che non riusciamo più a chiudere né gli occhi né la bocca – dissacra la vita». Già: l’inquinamento di immagini e suoni che abitiamo ogni giorno sta dissacrando la nostra esistenza, perché «il sacro richiede silenzio». È nel silenzio che la comunità si unisce in preghiera, è nel silenzio che Dio parla.

«La Chiesa chiede a tutti i suoi figli di seguire un’elementare regola di preghiera e di silenzio: la messa domenicale, le preghiere del mattino e della sera, l’esame di coscienza al termine della giornata», scrive monsignor Massimo Camisasca in Scuola di preghiera (San Paolo). «È solo pregando che si impara la fedeltà alla preghiera. Allo stesso modo non si può gustare il silenzio se non cominciando a viverlo. Chi smette di pregare a poco a poco cessa di desiderare la preghiera, non ne avverte più il fascino. In lui, assieme alla preghiera, si estingue anche la sete di essa».

Ripetizione, dicevamo. Quasi insistenza, come specificato dal Vangelo di Luca: «Chiedete con perseveranza, e vi sarà dato; cercate senza stancarvi, e troverete; bussate ripetutamente, e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve, chi cerca trova, e sarà aperto a chi bussa». La più grande forma di insistenza sono proprio i Salmi, che vale le pena di leggere nella eccezionale traduzione di Davide Brullo appena pubblicata da Aragno. «Distendo una pianura di silenzi tra me e Dio, l’inafferrabile», scrive Brullo. «I Salmi mi dicono: reclamalo, bastonalo, sei tu che devi obbligarlo a guardarti, renditi degno della sua attenzione, lotta».

Sì, bisogna lottare. Anche questo ci insegna la preghiera: il combattimento spirituale di cui parlava San Paolo: «Attingete forza nel Signore e nel vigore della sua Potenza. Rivestitevi dell’armatura di Dio (…) Pregate inoltre incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, vigilando a questo scopo con ogni perseveranza». Certo, la battaglia va condotta in modo non casuale, ma seguendo una forma. «La preghiera non può essere lasciata alla mercé dei sentimenti o degli stati d’animo», dice Massimo Camisasca.

In fondo, si può dire che la preghiera sia un’arte marziale, e in questa prospettiva la vicinanza fra Occidente e Oriente è piuttosto stretta: leggere per credere il fondamentale Bushido e Cristianesimo. Guerrieri e sapienti tra due mondi di Adolfo Morganti, fresco di pubblicazione per Il Cerchio. Da tempo ormai si susseguono studi scientifici che mostrano i benefici della preghiera sul corpo e la mente.

Ci sono quelli di Herbert Benson, cardiologo di Harvard, risalenti agli anni Settanta, che mostrarono come la preghiera abbassasse la pressione e allentasse le tensioni muscolari. All’inizio degli anni Duemila sono stati confermati dalle ricerche di Luciano Bernardi dell’Università di Pavia, pubblicate sul British Medical Journal. «Abbiamo registrato il ritmo respiratorio e cardiaco di 23 persone sane durante una normale conversazione» disse Bernardi all’epoca «confrontando i risultati con quelli ottenuti rispettivamente recitando l’Ave Maria, i mantra yoga o in sei minuti di respiro controllato. Ebbene, con le due preghiere il respiro diventa più regolare, con un effetto positivo sul ritmo cardiaco».

Ma i benefici della preghiera vanno molto oltre. Non solo fa bene al corpo perché ci rilassa e stabilizza: essa modella la nostra umanità. Ci insegna la pazienza, la perseveranza, l’attenzione, il rispetto delle forme. Migliora i singoli e rafforza i legami comunitari. E, soprattutto, tiene a bada il nostro narcisismo. Ci insegna a chiedere, ad ammettere che non possiamo farcela da soli. Ci fa capire l’importanza della trascendenza. Occhio, però. Pregare fa bene a tutti, anche a chi non crede. Ma pregando si corre il rischio di incontrare Dio per davvero.

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