È un’opera d’arte straordinaria il quattrocentesco Polittico di San Martino di Treviglio. Che ora, in uno spazio che lo celebri, può diventare l’emblema di Brescia e Bergamo capitali della cultura nel 2023.
Pensavo: esisteranno ancora parroci, o anche vescovi, capaci di pensare a Dio attraverso l’arte, per erigere un tempio che vinca «di mille secoli il silenzio», imponendoci ammirazione e stupore? Vedo solo effimero, incertezza, minacce alla grandezza del tempo, nei timidi conati di chi diffonde la parola del Signore. Eppure, alla fine del Quattrocento, i miracoli erano possibili, se il Polittico di San Martino per la chiesa di San Martino a Treviglio fu commissionato, il 26 maggio 1485, a Bernardo Zenale e Bernardino Butinone dal parroco Simone da San Pellegrino, che s’impegnò a pagare una cifra esorbitante per l’epoca, mille lire imperiali. Il progetto era così complesso che, gli artisti, consapevoli che questa era l’opera della loro vita, ci avrebbero messo vent’anni per completarlo.
L’opera venne realizzata dai due maestri trevigliesi, dividendosi equamente il lavoro, con l’aiuto di Ambrogio de’ Donati per la cornice lignea dorata di taglio bramantesco. Questa cooperazione tra artisti diversamente specializzati era stata propria della cultura medievale e si sarebbe consumata nel Cinquecento.
L’opera, completata, fu posta sull’altare maggiore, dove dovrebbe stare naturalmente, ma nel corso dei secoli fu spostata ai lati dell’altare sulla destra, in penombra. Il gusto e l’intelligenza erano cambiati. A guardarla, stupiti, si intendono le parole di André Chastel: «Il polittico sembra esporre la facciata di un edificio immaginario, in un teatro soprannaturale, adorno di Santi e Sante al balcone».
L’idea è infatti quella di un’architettura, con le colonne e un classico timpano, nella quale esterno e interno si sovrappongono: una facciata che, come i polittici gotici, esibisce una sfilata di santi distribuiti in palchi e platea come in un teatro, un esterno/interno senza precedenti e con una solennità da cerimonia di insediamento. Tutto ruota intorno all’attore principale, rappresentato in azione, mentre divide il suo mantello con il povero. Gli altri assistono e pregano. Dall’alto degli archi al primo piano pendono ghirlande per onorare i santi: San Martino si trova oltre la ghirlanda, come se stesse uscendo dalla pala per venire verso di noi. Ai lati stanno, ben sistemati, a sinistra San Zeno, San Maurizio e San Pietro, a destra San Sebastiano, Sant’Antonio da Padova e San Paolo.
Il registro superiore mostra di sotto in su le travi dorate del soffitto, ambiente regale e solenne per accogliere, al centro, protagonista, immersa nella luce dorata, la Vergine in trono con il Bambino tra angeli musicanti e due cherubini in volo che la incoronano; ai lati due gruppi di tre santi, che si affacciano da una ringhiera dorata: a sinistra Santa Lucia, Santa Caterina d’Alessandria e Santa Maria Maddalena, a destra San Giovanni Battista, Santo Stefano e San Giovanni evangelista.
È una festa per una grande inaugurazione, come fossimo già tutti in Paradiso, in una luminosa beatitudine.Questo voleva il parroco Simone, portare il cielo dei santi e dei martiri sulla terra dove si erano conquistati la gloria eterna. Più sotto, la predella composta da episodi, cadenzati, sui pilastri, da quattro santi a mezzo busto, i padri della chiesa: San Girolamo, San Gregorio, Sant’Ambrogio e Sant’Agostino. Le scene illustrano momenti fondamentali della vita di Cristo: la Nascita, la Crocifissione e la Resurrezione. Parroco beato! E ora, con lui, il suo successore, monsignor Norberto Donghi che per il polittico ha immaginato, quando Brescia e Bergamo saranno, nel 2023, capitali italiane della cultura, una «Porta del cielo», uno spazio nuovo nella chiesa di San Giuseppe dei pellegrini, sempre a Treviglio. La creazione di un Museo, attorno a un così grande capolavoro, comporta costi notevoli (preventivati, per ora, in circa 2,3 milioni euro). Perciò monsignor Donghi si è rivolto a un’istituzione vocata alla valorizzazione dei beni artistici culturali come Fondazione Cariplo.
Ogni cinque anni, la Fondazione destina cinque milioni per interventi «emblematici». Al teatro dipinto occorre un teatro reale. Il Polittico di San Martino è una vera macchina teatrale, concepita da una mente che elabora tutte le più innovative e prospettiche invenzioni del suo tempo, da Piero della Francesca a Giovanni Boccati, che concepì una analoga sontuosa celebrazione nel Polittico di Belforte sul Chienti, nelle Marche. L’effetto raggiunto è quello di un tempio, maestoso e dorato, che ospita una cerimonia solenne, un corteo di santi in preghiera, sopra e sotto, ai lati della vergine, mentre il cavaliere Martino è in azione, non in contemplazione, per soccorrere cristianamente il povero ignudo, nel gesto più semplice e universale di umanità e di assistenza.
Lo spettacolo è iniziato: si solleva il sipario e ognuno è al suo posto. Noi siamo gli attoniti spettatori. E non finiremo la meraviglia. È la più grande celebrazione del secolo, una grandiosa Missa solennissima. Sentiamo la musica di Josquin Desprez, il mottetto per il periodo natalizio Praeter rerum seriem a sei voci, il Miserere a cinque voci, Ave Maria, Virgo serena a quattro voci e Tu solus qui facis mirabilia a quattro voci. Le voci sono quelle dei santi che si affacciano per guardarci ed essere guardati. Nell’aria ci sono il profumo di incenso e di mirto, e ovunque risplende l’oro. Butinone aveva guardato Mantegna a Padova e a Verona, e i pittori ferraresi, Cosmè Tura nel Polittico Roverella a Ferrara, Francesco del Cossa nel polittico Griffoni a Bologna, Ercole de’ Roberti nella Pala di Santa Maria in porto di Ravenna, e, con la sua competitiva fantasia, «riuscì talora più ferrarese dei ferraresi» (Longhi), benché nessun documento ci parli di una sua presenza a Padova o a Ferrara, a Bologna o a Ravenna. È lo spirito del tempo che lo muove. La forza dell’iperbole. Il polittico sensazionale è uscito invero dalla mente fervida di due artisti, Bernardino Butinone e Bernardo Zenale, che avevano lavorato anche in San Pietro in Gessate, a Milano, per gli affreschi della Cappella Griffi. Temperamenti dissimili, complementari, guidati da una visione comune, di grande vitalità.
Entrambi sono pittori puri. In particolare Butinone, educato a uno sperimentalismo fantastico, si affianca a Vincenzo Foppa, e ha una fantasia degna di Crivelli e di Cosmè Tura. Lo si vede già nella Crocifissione della Galleria Nazionale di Palazzo Barberini, dove accentua l’espressionismo di Mantegna. Nella sua prima opera conosciuta, il Trittico del Carmine, ora a Brera, mostra di avere assimilato anche certi caratteri della scultura contemporanea, del Mantegazza e dell’Amadeo. A Treviglio, Butinone vuole sorprendere, mostrare di essere architetto, scultore, pittore, miniatore, musicista, scenografo regista. Nessuno, in tutto il Quattrocento, ha concepito un’opera così complessa: capricciosa, fantasiosa, onirica.
Nel polittico di Treviglio, come per contenere la fantasia sulfurea di Butinone, il più sobrio e concreto Zenale prepara la cornice architettonica. Una grande architettura, un meraviglioso teatro con le sante e i santi affacciati al balcone, per una elegantissima prima con la Madonna nel palco presidenziale. C’è spazio per tutto: per l’oro e il paesaggio, per i Padri della Chiesa e le storie di Cristo. A Treviglio l’obiettivo di Butinone, con l’amico Zenale, è competere soprattutto con il Mantegna, andare oltre la Pala di San Zeno, tenere insieme pittura, scultura e architettura, teatro, musica, in un trionfo mai visto prima.
San Martino è un vero cavaliere e le sante sono dame di corte, e il povero è magro, privo di tutto, nudo. Butinone e Zenale sono indifferenti al richiamo edificante, evangelico, alla esaltazione della povertà, alla forza dell’esempio evocato dal gesto del santo. Vogliono stupire. Importa il cielo. II loro smisurato polittico non emana solo luce, manda suoni, è stereofonico, come un organo che diffonde musica nella chiesa. Tutti gli altri sensi sono presi, oltre ogni umano limite. In tutto il Nord Italia non c’è un’opera mobile più grandiosa è importante. Essa è oltre la realtà. E non è un sogno.