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Perché l’Oms non si mette d’accordo con se stessa

Tacciata di essere smaccatamente filocinese, l’Organizzazione mondiale della sanità invece di dare linee guida chiare sull’emergenza ha commesso una serie di gravi errori su test, mascherine e tamponi. E continua a brancolare nel buio.


Come la ginnasta americana Sophia Lucia, che nel 2017 eseguì 55 giri consecutivi su se stessa, anche l’Organizzazione mondiale della sanità è maestra nel piroettare. E, dopo mesi di incertezze, potrebbe persino rivedere le sue indicazioni riguardo le mascherine ai tempi del coronavirus. All’inizio, utili solo a medici e pazienti. Adesso, ma con grande moderazione eh, pure alla popolazione. Domani, chissà, imprescindibili. La via dell’ennesimo e tardivo pentimento potrebbe essere tracciata. Ancora un mese fa, il 20 marzo 2020, l’Oms assicura: «Servono solo a chi lavora in prima linea». Implora addirittura i duri di comprendonio: «Se non ne avete bisogno, per favore, non indossatele».

Lo scorso 1° aprile Tedros Adhanom Ghebreyesus, l’accademico etiope che da tre anni guida l’organizzazione, aggiunge: «Devono usarle le persone malate e chi si prende cura di loro». Cinque giorni dopo, la prima, tiepida, ammissione: «È una delle misure di prevenzione che può limitare la diffusione» ammette. Però, sia chiaro: «Non esiste una risposta in bianco o nero». Il mondo è in ambasce. I cittadini sono in messianica attesa. I governi attendono direttive certe. Tutto il gregge planetario ha un unico faro: l’Oms. Invece, mai come stavolta, l’agenzia dell’Onu per la salute ha mostrato la sua inconcludenza. Cantonate, smentite, abbagli. Dalla diffusione del virus in Cina sono passati mesi. Ma la gloriosa istituzione con sede a Ginevra, lungi da rischiarare l’oscura notte, continua a brancolare. Mascherine, distanze, contagi. Non c’è nulla su cui non abbia preso tempo e cambiato idea. Perfino lo stato di pandemia, la certificazione di morbo globale, è stata dichiarata solo l’11 marzo 2020. Quando tutti bambini del pianeta in età prescolare l’avevano intuito.

I nostri turboesperti, 7 mila dipendenti sparsi per il mondo dietro sontuose paghe, dovrebbero guidarci nelle traversie sanitarie, con mano lesta e sicura. Invece, preferiscono andarci con i piedi di piombo. E la circospezione non gli evita comunque strepitosi abbagli. L’ha imparato, a sue spese, pure l’Italia. Torniamo allo scorso 24 febbraio. Il coronavirus comincia a diffondersi nel nostro Paese. C’è un focolaio a Codogno, nel Lodigiano. E un altro a Vo’ Euganeo, nel Padovano. La Regione Veneto decide subito esami a tappeto sulla popolazione locale, incurante di quanto assicurato proprio dall’Oms tre settimane prima: «La trasmissione da casi asintomatici probabilmente non è uno dei mezzi principali di contagio».

Andrea Crisanti, ordinario di Microbiologia all’Università di Padova, si convince del contrario: tamponi a tutti. «Un errore che porta solo confusione e allarme sociale» rintuzza Walter Ricciardi, membro del board Oms e acclamato consulente del governo italiano per l’emergenza coronavirus. Il 13 marzo, però, il focolaio di Vo’ si spegne: non c’è nessun nuovo caso. Il controllo degli asintomatici ha funzionato. Così, a soli tre giorni di distanza, l’agenzia ginevrina rettifica: «Il nostro messaggio chiave è: test, test, test». E adesso Crisanti denuncia questo «atteggiamento irresponsabile». L’ex docente all’Imperial college di Londra argomenta: «I cinesi hanno mentito al mondo e non hanno comunicato il tema fondamentale della trasmissione del virus da soggetti asintomatici. Ma l’Oms, che è andata in Cina a fare ispezioni con una task force, quali controlli ha fatto?».

La svista ha indotto, ovviamente, identica sottovalutazione in molti Paesi. Primo fra tutti l’Italia, che non ha investito tempo e risorse nella caccia all’esercito invisibile degli infettati. Solo all’inizio di aprile, oltre un mese dopo l’esperimento di Vo’, vengono annunciati più tamponi. «In questo momento, la mancanza di una leadership credibile è drammatica» commenta l’epidemiologo Walter Pasini, direttore del centro Travel medicine and global health. «Per alcuni esperti del governo l’Oms è l’oracolo di Delfi, invece è piena di burocrati superpagati che vivono fuori della realtà. Come le altre agenzie dell’Onu, fa politica. E, al suo interno, Pechino ha un peso enorme. Non a caso l’ex direttore generale, la cinese Margaret Chan, è rimasta in carica per due mandati».

Negli Usa, intanto, il Wall Street Journal titola: «World health coronavirus disinformation». Traduzione: «La disinformazione mondiale della sanità sul coronavirus». Nell’articolo, il quotidiano accusa l’Oms di aver gestito malamente la pandemia. Fin dalla sua comparsa in Cina. Sarebbe Ghebreyesus il principale «responsabile della maggior parte degli errori commessi». Alcuni funzionari di Taiwan, Paese in pessimi rapporti con la Repubblica popolare, avrebbero avvertito già il 31 dicembre 2019: c’erano prove, sostengono, del contagio tra persone.

Ma l’agenzia, «inchinata» davanti a Pechino, per settimane avrebbe temporeggiato. Tanto che, il 14 gennaio 2020, assicura: «Le indagini preliminari condotte dalle autorità cinesi non hanno trovato prove chiare della trasmissione da uomo a uomo». Due settimane dopo, Ghebreyesus siede a fianco del presidente cinese, Xi Jinping, nella Grande sala del popolo di Pechino. Il direttore generale è prodigo di lodi: «Apprezziamo la serietà con cui la Cina sta affrontando questo focolaio e la trasparenza che ha dimostrato». Parole che diventano, sui media del Paese asiatico, la miglior propaganda alla supposta solerzia presidenziale. Lo sperticato elogio, però, comincia a insospettire.

Il senatore americano Rick Scott, un roccioso repubblicano, chiede al Congresso di indagare sul «ruolo svolto dall’agenzia delle Nazioni unite nell’aiutare la Cina comunista a nascondere informazioni sulla minaccia del coronavirus». E propone di sospendere i contributi degli Stati Uniti: ovvero, il 22 per cento del totale. Qualche giorno dopo, il 7 aprile 2020, Donald Trump conferma: «Valuteremo lo stop ai fondi». E, con il solito tweet tambureggiante, aggiunge: «L’Oms ha davvero fallito. Pur essendo finanziata in gran parte dagli Stati Uniti, per qualche ragione è filocinese. Controlleremo con attenzione. Fortunatamente, ho respinto molto presto il loro consiglio di tenere aperti i nostri confini alla Cina. Perché dare un consiglio così sbagliato?».

Gli americani non sono gli unici a vedere intrighi e complotti. Negli ultimi mesi, l’agenzia è stata bersagliata da critiche. Troppo vicina a Shanghai. Eppure dalla Cina proviene il 12 per cento dei finanziamenti: solo poco più della metà di quanto versa Washington. Dunque, la risposta al dilemma non può essere quella del Watergate: «Follow the money». Perché, allora, l’Oms sembra preferire il Dragone alla Casa Bianca? Una risposta potrebbe essere questa: l’attuale direttore generale è stato eletto grazie al fondamentale appoggio di Pechino. Un’altra, meno politica e più generica, potrebbe invece averla data, tra gli altri, l’ex consulente dell’organizzazione, Charles Clift, adesso nel think tank Chatam house e collaboratore del British medical journal: l’Oms è troppo politicizzata, burocratica, timida e lenta.

Un carrozzone, esposto alle intemperie governative dei 194 stati membri. E affetto da inguaribile elefantiasi. Basti pensare a come ha temporeggiato anche di fronte a un altro virus: Ebola. Solo ad aprile 2015, più di un anno dopo il primo caso diagnosticato, pubblica un rapporto sugli sbagli commessi. Ed evidenzia, in particolare, la «lenta e insufficiente» risposta iniziale alla diffusione dell’epidemia. Qualche anno prima, nel 2009, con l’influenza A capita il contrario: poco contagiosa, è dichiarata pandemia globale. L’Europa acquista persino milioni di dosi di vaccino, inutilmente. Anche l’influenza suina viene sopravvalutata: lo ammette, estinto il rischio, la stessa organizzazione.

Così, pure adesso, non c’è da stupirsi. L’Oms, ancora una volta, è pronta a indicare la retta via. E mentre ragiona sulle mascherine, lancia l’ultima campagna «per prevenire la diffusione del Covid-19»: #PlayApartTogether. È un accorato invito ai ragazzini reclusi in casa: giocate il più possibile con i videogame. È sano e divertente. Idea brillante. Che però sembra stridere con quanto deciso due anni fa: inserire la dipendenza da videogiochi tra le malattie mentali. Che si fa, allora? Nel dubbio, meglio aspettare la prossima direttiva.

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