Una tavola quattrocentesca attribuibile a Vincenzo Foppa è andata all’asta senza che le autorità l’abbiano riconosciuta e siano intervenute per trattenerla in Italia… Individuare per preservare è un compito che richiede preparazione e dedizione continua. È complesso, ma necessario più che mai.
Il mestiere dello storico dell’arte è fatto di confronti continui, avvicinamenti, delusioni, emozioni, in una sensazione di impotenza e inconsapevolezza davanti alla vastità della materia e alla infinità degli artisti. E non è un campo chiuso, è un campo aperto. Rispetto ad altre discipline non ha confini e, pur prevedendo specializzazioni, impone una conoscenza più quantitativa che qualitativa. Per capire un’opera occorre conoscerne molte, in una continua gara con sé stessi e con gli altri studiosi. Il più bravo è quello che ha visto di più, ha viaggiato di più, ha visitato più chiese e più musei, mappando territori per capire epiche e stili, per studiare opere note con occhi nuovi, per scoprirne di mai viste.
È una caccia continua, e una continua sorpresa. Occorre classificare, catalogare, consultare libri, confrontare fotografie. Ho visto all’opera, ho frequentato le case e gli studi, invidiato le biblioteche e le fototeche di molti storici dell’arte, allievi di Roberto Longhi, frequentatori amorosi di quadri: Cesare Brandi, Giuliano Briganti, Federico Zeri, Mina Gregori, Italo Faldi, Carlo Volpe, Philip Pouncey, Alvar González-Palacios, Francis Haskell, André Chastel, Sylvie Beguin, Rodolfo Pallucchini, Pietro Zampetti, Egidio Martini, Terisio Pignatti, Licisco Magagnato, Giulio Carlo Argan, Maurizio Calvesi, Giovanni Mariacher, Alessandro Ballarin. Potrei continuare. È una storia di incontri di oltre 50 anni. Ma parto dall’inizio.
È con commozione che riprendo in mano le dispense dei miei anni universitari, trasferite dal primitivo e superato ciclostile, consunto dall’uso, a una imprevedibile e sobria riproduzione a stampa, pietosamente voluta dall’Accademia Clementina con il Dipartimento delle arti visive dell’Università di Bologna. Risento quelle parole emozionanti nell’aula semibuia dell’Istituto di Belle Arti in via Zamboni, dove ero entrato, non so se per istinto o perché guidato da un compagno di studi più avvertito, pronunciate da un professore fortemente coinvolto, con la sua voce vibrante e cordiale: Francesco Arcangeli. Eravamo nell’autunno 1970, è passato oltre mezzo secolo, io ero poco interessato alla storia dell’Arte, convinto di dedicarmi alla critica letteraria; ma, una volta entrato in quella stanza, non ne sarei più uscito. Non ricordo altre aule, altri docenti, altre lezioni. Arcangeli ci avvinse tutti.
Ci raccontava esperienze ed emozioni, non esibiva erudizione e dottrina, ci invitava a fare un viaggio nel tempo portando la storia nel presente, con una immediatezza e una seduttiva forza di persuasione che avevo già avuto la fortuna di sperimentare nell’adolescenza grazie alle conversazioni del mio letteratissimo zio Bruno Cavallini e ora ritrovavo nei mondi nuovi degli artisti raccontati da Arcangeli. Devo ciò che sono a quel viaggio «Dal Romanticismo all’Informale» (il tema del corso), che rovesciava le facili suggestioni dell’impressionismo francese e ci metteva davanti agli spazi infiniti di William Turner e Caspar David Friedrich, a quel «sublime naturale» che ci travolgeva anche nelle grame proiezioni di diapositive in bianco e nero sullo schermo della parete di fondo.
Non potrò dimenticare come Arcangeli ci introdusse al Romanticismo, alla idea di una sensibilità nuova davanti e dentro la natura. Ecco l’incipit: «…il Romanticismo non è il sentimento o non è soltanto il sentimento: è qualcosa di ben più profondo e sconvolgente. Sì, da tempo io avevo avuto i miei avvertimenti ma riguardavano piuttosto la musica o la letteratura. Fu una volta al Teatro Verdi (dove ora è il cinema Capitol), il pianista era famoso e si chiamava Walter Gieseking. Eravamo nel 1942, Gieseking suonava Schumann, un musicista che fino a quel momento era rimasto per me chiuso, non comunicante, noioso. Ma da quando il pianista mise le mani sul pianoforte per tracciare i primi profondi sconvolgenti accordi della Quinta Sonata, Schumann divenne per me anche più di Beethoven e dello stesso Chopin, e mi parve che… Romanticismo fosse struggimento, senso dell’inafferrabile, della distruzione di ciò che sembra certo: una cosa, a un tempo, terribilmente cosmica ed esistenziale».
Mentre ci avviava a una conoscenza più approfondita dello spirito del Romanticismo, con una capacità di sentire i tempi e avvertire quante cose erano cambiate con le rivolte del Sessantotto, impedendo a molti professori di fare lezione nelle aule occupate, Arcangeli ci faceva intendere come la riflessione sull’arte e sulla storia avesse a che fare anche con il presente, con quel presente: «Questo corso ve lo propongo proprio per questa ragione essenziale, per supplire a una carenza evidente della vostra cultura; e certo voi giovani che contestate o avete contestato siete subito pronti, ingenuamente e in genere senza malignità, a dar la colpa di questo alla generazione che vi precede, siano questi docenti di liceo o università o comunque educatori».
Quel corso fu per me fondativo, e ben oltre il periodo storico affrontato mi fornì il metodo per capire l’intera storia dell’arte. Sulla parete grigia apparivano improvvisamente dipinti lontani, di cui Arcangeli ci mostrava l’intima consonanza: affiancava Piet Mondrian a Piero della Francesca e noi ne sentivamo, a distanza di secoli, la sostanziale affinità. Arcangeli li chiamava «tramandi». Non potrò mai dimenticare quelle illuminazioni, che io ho poi esteso ad altri collegamenti. L’emozione di quelle giornate la riprovo alla lettura delle parole di cui la memoria conserva anche l’accento suadente con cui Arcangeli le pronunciava. In un solo momento prendevamo coscienza della incommensurabile grandezza di Friedrich, attraverso immagini assolute di vedute distanti e assiderate, e della coeva letteratura tedesca, che esprime una concorde sensibilità.
Davanti a uno dei dipinti più celebri del pittore tedesco, Il monaco in riva al mare, del 1809, Arcangeli rievocava la lettura di Heinrich von Kleist: «Il quadro si stende davanti a noi come l’apocalisse e, poiché tutta la sua uniformità e illimitatezza come primo piano ha soltanto la cornice, quando lo si guarda è come se a uno avessero asportato le palpebra». Arcangeli parlava parlava proprio a noi, ragazzi. Diceva: «Vedete anche come, mentre Turner e Constable sono vari, aperti a diversi atteggiamenti sentimentali, in Friedrich c’è un atteggiamento chiuso, concentrato in sé stesso, fino all’ossessione, apparentemente monotono». Insomma, in quell’anno ci si aprì un mondo. L’anno successivo, nel 1972, partimmo per Parigi con Arcangeli per vedere la grande mostra del Romanticismo inglese, dominata dallo smisurato Turner. Fu il romantico inizio di un viaggio mai terminato.
Da allora, il mio rapporto con le opere d’arte si è fatto più ravvicinato, fino a diventare una sempre più stretta intimità, nutrita anche di gelosie e invidie, per chi ha visto prima, per chi ha meglio capito, per chi ha acquistato dipinti orfani o trascurati grazie all’occhio e all’ingegno, in una gara che richiede attenzione, velocità e sveltezza. La maggiore sofferenza è non avere visto, e anche peggio avere visto e non aver capito. Di Vincenzo Foppa, apparso dalla casa d’aste Wanennes, acquistato per 2 mila euro e inseguito dai Carabinieri, io, uomo di Stato, non rimpiango che non sia ancora in un museo con la forza; ma che non me ne sia accorto io per acquistarlo e accoglierlo, con felicità, in una Fondazione destinata a essere pubblica, grazie alla capacità di riconoscerla da parte dello Stato e di annetterla. Questo miracoloso rispetto per l’occhio e l’intelligenza da parete delle istituzioni della tutela, è stato interpretato attivamente dal Fondo ambiente italiano per collezioni come Panza di Biumo e Gianferrari, e nei confronti di un grande collezionista come Luigi Magnani, che fu agevolato dallo Stato nell’acquisto, in un convento di clausura di Bagnacavallo, della Madonna con il Bambino di Albrecht Dürer.
Il privato garantiva una supplenza allo Stato. Non era una guerra, ma una benigna e salutare alleanza, riconoscendo al privato, al suo occhio e al suo merito, di aver capito ciò che era sfuggito allo Stato. Chi ha scoperto, sporco e dimenticato, il San Pietro del Foppa, è inseguito come un ladro, come se capire fosse una colpa. Si è parlato di dipinto «mascherato». E chi avrebbe dovuto mascherarlo? Chi lo ha venduto o chi lo ha acquistato? Semplicemente era sporco, e occorreva occhio per capirlo. Così è stato comprato e così è stato esportato. Chi ha avuto l’occhio e la sapienza di riconoscerlo ha avuto la conferma della sua intuizione come in tanti altri casi che sono la ragione stessa dell’esistenza dell’antiquario e del collezionista. Talvolta appaiono, spesso si nascondono, opere che consolano di esistere fra incomprensioni ed equivoci. Occorre essere vigili e accorti, con le antenne pronte, perché in ogni luogo del mondo ti aspettano silenziose, spesso sporche, opere di maestri nascosti, che chiedono un occhio che le attraversi. È una caccia, e ha senso se ne ritorni con un nome o con una preda, in una doppia gara. Basta poco per arrivare tardi. Per lo Stato non è mai troppo tardi.
