È nel Novecento che si è cominciato ad affrontare il tema dell’identità sessuale, oggi diventato di urgente attualità. Quattro artisti coraggiosi e visionari – Pierre Klossowski, Carol Rama, Hans Bellmer e Pierre Molinier – ne hanno anticipato alcune interpretazioni perturbanti. Che ora sono al centro di un’esposizione al Mart di Rovereto.
Ben oltre le mie aspettative, questa mostra, nata da una atavica sfida con il gallerista bresciano Massimo Minini sul tema del contemporaneo, che affonda le sue radici in tempi lontani, ha trovato un equilibrio e una inattesa armonia che blinda il tema Arte ed Eros nell’esperienza concorde di quattro artisti diversi e lontani. Si parte, negli spazi ariosi del Mart di Rovereto, intorno al nome di Pierre Klossowski (1905-2001) di cui Minini poteva garantire un fondo di circa 60 disegni e pastelli. Ma non era una mostra di Klossowski che Minini voleva. Nel suo pensiero si agitava l’idea di un dialogo tra un classico del contemporaneo, rivelatosi tardi pittore dopo una lunga stagione di scrittore, e un artista più giovane, che per qualche tempo fu Luigi Ontani, stimato da entrambi, animato da un conturbante erotismo orientale ma limitato dalla, temporaneamente irriducibile, condizione di essere vivo. Così, nonostante il tempo lungo a sua disposizione e ritenendo che il già fatto non potesse prevalere sul da farsi, ha ritenuto di non partecipare al progetto. Con una certa delusione di Minini.
È stato allora che io, che avevo presentato nel 1985 una mostra di Klossowski alla Galleria Giulia di Roma, e mi ero intrattenuto con l’artista nella città dove suo fratello Balthus aveva per lunghi anni diretto Villa Medici, mi trovai quasi al buio ad azzeccare il poker d’assi che qui presento. Iniziai a insistere su una artista di varia esperienza ma di cui ricordavo disegni e acquerelli di tormentato soggetto erotico: Carol Rama (1918-2015). Erano apparizioni in un’intermittente visione: acquerelli nei quali donne nude, talvolta con i corpi amputati degli arti e su letti di contenzione o sedie a rotelle, esprimono un esplicito erotismo.
Animali, protesi ortopediche, dentiere, scarpe, parti anatomiche (falli, braccia, piedi, lingue) animano questi dipinti sfrontati, tanto anacronistici per l’epoca da risultare inaccettabili (la sua prima personale nel 1945 fu bloccata, le opere sequestrate). Sono lavori che riflettono le angosce e le fantasie di una giovane donna che ha dovuto confrontarsi con aspetti traumatici della vita.
Certo, sono molto distanti da Klossowski, ma mossi da un analogo grumo di emozioni e turbamenti. D’altra parte, la riflessione dell’artista sull’opera di De Sade e la traslazione delle sue ossessioni dalla letteratura alla pittura consentono passaggi dell’inconscio e imprevedibili accostamenti. È in fondo quello che aveva visto nella produzione di Klossowski il fratello Balthus: «La pittura fu immediatamente per me il mezzo, lo strumento, la via obbligata per tentare di portare alla luce l’ineffabile. Anche mio fratello Pierre conosce la strana alchimia alla quale la pittura permette talvolta di accedere, lui che cominciò a cercare di spiegarla a parole, decise infine di abbandonarle, un po’ alla maniera di Rimbaud, per scegliere l’esperienza del disegno e della pittura e dedicarvisi totalmente».
Poteva dunque bastare il binomio Klossowski-Rama? Forse. Ma, arrivati a quel punto, non era difficile risalire a un grande interprete di una visionaria ossessione sessuale: Pierre Molinier (1900-1976). Deliri. Con questo pittore e fotografo francese il disorientamento sessuale non è una metafora: è la vita. Il travestitismo non è una recitazione o una espressione di narcisismo creativo, ma una condizione naturale, un modo di essere: il suo. Le fotografie di Molinier sono lo specchio delle sue idee. L’artista vive la sua condizione sessuale «transitoria», e la documenta. La sua ambiguità è tutta nella frase: «Se mai dovessi reincarnarmi, sarà nei panni di una donna; ma non una donna qualsiasi, bensì una donna che ama le donne».
Molinier non è omosessuale, è lesbico. Le sue dichiarazioni non consentono dubbi: «I miei quadri sono soltanto un tentativo di proiezione, un tentativo di materializzazione di quello che c’è in me, delle mie sensazioni, di tutto quello che si vorrebbe esprimere attraverso di me». Siamo di fronte a un’esperienza totale, ben definita da David Pigeret: «Non si può separare la vita dalla sua opera, poiché l’una nutre l’altra, anche in senso letterale: ha spesso raccontato di usare regolarmente il proprio sperma come legante tra due strati di colore». È proprio Pigeret a indicare il nesso implacabile di queste figurazioni con il quarto artista convocato per questo poker d’assi: «Si crea un corpo ideale, sognato, alla maniera di un Hans Bellmer (1902-1975): un corpo ermafrodito, di un terzo genere, neutro, secondo le sue fantasie».
Bellmer, oggetto di un vero e proprio culto, è conosciuto per le sue bambole a grandezza naturale, raffiguranti corpi femminili dissezionati e ricomposti, sfigurati, come abbiamo visto anche in Carol Rama, e con un analogo contrasto con il potere. Le sue bambole si contrapponevano al culto del corpo perfetto dominante in Germania, così come era rappresentato dalla fotografa Leni Riefensthal. Il libro La Bambola (Die Puppe), prodotto e pubblicato privatamente nel 1934, contiene 10 fotografie in bianco e nero della prima bambola arrangiate in una serie di «tableaux vivants». Il suo mondo immaginario incontrò a Parigi il favore di André Breton e dei surrealisti con i quali Bellmer espose più volte. Nella sua trasgressiva visione si trasforma il corpo della donna in un oggetto per la proiezione dei propri conflitti irrisolti, esibendo gli aspetti più oscuri del desiderio.
Le fotografie di Bellmer sono pubblicate sulla storica rivista Minotaure. E diventano manifesti di una rivoluzione sessuale, fuori da ogni regola. Dopo la guerra, a Parigi, Bellmer non si occupò più della preparazione di bambole, ma elaborò disegni erotici, incisioni, fotografie sessualmente esplicite, con immagini di ragazze adolescenti. Nel suo breve saggio Anatomia dell’immagine, Bellmer scrive: «Posate su uno specchio senza cornice la fotografia di un nudo e, mantenendo sempre un angolo di 90°, fatelo avanzare e girare in modo che le metà simmetriche dell’insieme visibile rimpiccioliscano o ingrandiscano secondo un’evoluzione lenta e regolare. L’insieme si riproduce incessantemente sotto forma di bolle, di pelli elastiche che, gonfiandosi, escono dalla fessura più che altro teorica dell’asse di simmetria; oppure, se eseguite un movimento inverso, l’immagine fatalmente rimpicciolisce, le sue metà colano l’una nell’altra, come colla tiepida risucchiata da un nulla irresistibile, come la candela posata su una stufa calda, che si accorcia perché si liquefà in silenzio a partire dalla base, che è anche quella del suo doppio riflesso nella cera fusa. Di fronte a un tale fatto abominevolmente naturale e che si accaparra tutta l’attenzione, la questione della realtà o della virtualità delle metà di questa unità in movimento sfuma nella coscienza, si cancella ai margini della memoria».
Il Baffometto e Roberte di Klossowski, la Bambola di Bellmer, il corpo ideale, ermafrodito di Molinier, Dorina di Carol Rama indicano una sessualità indefinita e in transizione, che mai come in questa mostra stabilisce un disorientamento, una perdita di identità, una irrisolta ambiguità propria del nostro tempo. I quattro artisti ne sono i profeti. Il sesso è la nostra identità profonda.
