Home » Attualità » Opinioni » Così Klimt ispirò gli artisti italiani del Novecento

Così Klimt ispirò gli artisti italiani del Novecento

Così Klimt ispirò gli artisti italiani del Novecento

Un’eccezionale mostra al Mart di Rovereto offre allo sguardo l’universo onirico, raffinato e orientaleggiante del grande maestro viennese, reinterpretato in molte altre opere (tra dipinti e sculture) nei primi vent’anni del secolo scorso. Viaggio affascinante in 200 creazioni di rara bellezza.


La mostra è incredibilmente puntuale. A partire dalla ricognizione di artisti precoci e periferici come Domenico Baccarini con il suo cenacolo baccariniano e gli effetti che produsse, ancora negli anni Venti, sull’esotica ceramica di Francesco Nonni. Nello stesso ambito si segnala l’esperienza di Giovanni Guerrini di Imola con il fascinoso ritratto del 1913, rarefatto omaggio a Klimt, in cui si riconoscono suggestioni dei Preraffaelliti, dell’Art Nouveau, della Secessione viennese. Dopo aver studiato a Bologna con Adolfo De Carolis, si fece conoscere nel 1908 all’Esposizione di Faenza di cui disegnà la copertina del catalogo. Tra 1910 e 1912 affrescò, in gusto secessionista, la sala da pranzo di Villa Emaldi a Errano presso Faenza.

Gli echi klimtiani di Guerrini si ritrovano in Giuseppe Ugonia, nelle litografie Arcadia del 1913 e Contrasti del 1914. E vi sono raffinatissime esperienze provinciali, presenti per la prima volta, come Merchiorre Melis con la sua inedita Sposa del 1915, sintesi di costume sardo e gusto viennese. Altre esperienze periferiche sono quelle del triestino Dyalma Stultus con una precoce testimonianza nel 1918, e Cesare Bentivoglio con una rara Deposizione del 1921. La bolognese Emma Bonazzi si muove nella pittura e nelle arti applicate. Da notevoli prove di ricamo alle scatole per Perugina lavorando con stoffe di lana, seta, camoscio, oltre che con la pittura a olio.

Testimonianze fragili e perfino commoventi in un ambiente di gusto predisposto alla riflessione su Klimt, come provano gli arazzi di Francesco Dal Pozzo illustratore che svolge anche una intensa attività di decoratore, creando i disegni per ricami, tappezzerie, capi di abbigliamento e le tempere per pannelli ad arazzo, che dal 1922 venivano ricamati, sotto la sua direzione, in lana, seta e cotone, in un laboratorio di Milano allestito da Gina Fumaletto Lazzaro (con la morte di quest’ultima nel 1927, Dal Pozzo chiuse l’attività).

Nella mostra sull’influenza di Klimt sull’arte italiana appare un artista torinese come Matteo Reviglione che, attraverso l’esperienza del liberty e della Sacessione viennese, arriva a invenzioni originali in dialogo con la letteratura, come il ritratto della poetessa Amalia Guglielminetti nel 1912, e a un capolavoro di ironia come il Gatto persiano che fa l’indiano del 1920, con effetti di luci e colori come fuochi d’artificio. La mostra riconosce, attraverso la ricerca di Beatrice Avanzi, memorie di Klimt in molti artisti, da Gino Parin a Vito Timell e Guido Marussing. Tutti a cavallo fra decorativismo e visione onirica. Significativa la presenza di artisti trentini, dall’ispirato Luigi Bonazza al sofisticato Luigi Ratini, al vertiginoso e insieme classico Dario Woolf. Sono approfonditi anche artisti come Guido Trentini di origine veronese e Attilio Trentini di poco lontano, così come Pino Casarini, Guido Balsamo Stella e Mario Cavalieri. Intensa è l’esperienza di Mario Cavalieri ma l’influenza persistente di Klimt è nella natura allucinata di Teodoro Wolf Ferrari.

Esemplari le sezioni dedicate a Casorati e a Giulio Bargellini. Non inedita, ma puntualmente documentata, è l’esperienza di Adolfo Wildt sulla scorta dell’intuizione di Antonio Maraini: «Si potrebbe dire che Wildt è un po’ il Klimt della scultura». Tracce klimitiane insegue Lucio Scardino in Adolfo Magrini, Aroldo Bonzagni, Marcello Nizzola e nei decoratori ferraresi Giovanni Battista Gianotti ed Ettore Zaccari. Ho lasciato alla fine i due artisti che più hanno aderito al linguaggio neobizantino di Klimt: Galileo Chini e Vittorio Zecchin . I 18 grandi pannelli per la Biennale di Venezia su «la primavera che perennemente si rinnova» sono la più alta tradizione di pittura dopo l’intuizione klimtiana della traduzione in pittura dei paramenti musivi di Venezia e Ravenna.

Ma l’esperienza più immersiva è quella di Vittorio Zecchin nei pannelli per il ciclo de Le mille e una notte creati nel 1914 per l’Hotel Terminus di Venezia. A questo ciclo si deve, per Zecchin, la fama di «Klimt italiano». Unendo il gusto klimtiano con la tradizione dei telerai di Carpaccio Zecchin lavora su una superficie di circa 22 metri. A 36 anni, Zecchin aveva terminato il ciclo delle Mille e una notte. Gli era stato commissionato dai proprietari dell’ Hotel Terminus alla Lista di Spagna, distrutto nella Seconda guerra mondiale. Una serie di grandi tele per decorare una sala da pranzo, coprivano 40 metri quadri di pareti. Poi gli aggiornamenti del gusto, che spinsero l’hotel a rinnovare inutilmente i suoi spazi, portarono allo smembramento del ciclo, oggi diviso in 12 pannelli: di questi, sei si conservano alla Gallerie internazionale d’Arte moderna di Ca’ Pesaro, tre al Musée d’Orsay a Parigi, altri in collezioni private.

Il ciclo del Terminus raccontava il momento della storia di Aladino, quando il giovane va dall’imperatore per prendere in sposa la sua promessa. È una cascata di ornamenti che Zecchin diffonde nei suoi pannelli con la processione di principesse che in fila portano i loro doni in un giardino incantato, tra guerrieri neri che fanno la guardia, celati dietro scudi decorati. La materia trasforma le pitture in tessuti con gemme sulle lunghe vesti, sugli scudi rotondi, sugli alberi di cui non si scorgono le cime, sui cespugli, sul prato. Un Oriente antico, bizantino, che nella Venezia del primo ‘900 si poteva sognare nei racconti della principessa Shahrazad. All’epoca, quelle tele immense con «fantasie di principesse assire, schiave etiope, guerrieri neri su sfondi d’oro, tra rivoli d’argento e costellazioni di pietre preziose» come scrisse nel 1922 il drammaturgo Gino Damerini, non piacquero: Zecchin appariva un esaltato imitatore di Gustav Klimt. Ma in questo ciclo si fondono secoli dell’arte veneziana. C’è la tradizione dell’arte vetraria, in cui Zecchin s’era formato e alla quale sarebbe tornato dopo aver abbandonato la pittura nel 1918, diventando direttore artistico dei vetri Cappellin e Venini, e lavorando per diverse vetrerie della città.

I motivi del ciclo dipinto per l’Hotel Terminus sono gli stessi delle murrine. C’è la solennità della Venezia bizantina nel corteo delle principesse e nella fissità dei guerrieri. C’è la raffinatezza cromatica dei muranesi Vivarini, per i quali Zecchin ebbe grande interesse fin dal 1909, quando iniziò a esporre le sue opere alle mostre di Ca’ Pesaro organizzate da Bevilacqua La Masa. E ci sono le suggestioni di Klimt, visto alla Biennale 1910: Zecchin è il più vicino a Klimt degli artisti italiani, insieme a Galileo Chini, come intende il Mondi: «Se Galileo Chini dà un’interpretazione toscana degli stimoli klimtiani, nel senso della linea, cioè del disegno, Zecchin ne dà un’interpretazione tutta veneziana, nel senso del colore». E poi, la seduzione dell’orientalismo e l’atmosfera misticheggiante che discende dalle oniriche scene di Jan Toorop, conosciuto da Zecchin alla Biennale del 1905, dove l’olandese, nato a Giava, aveva portato una ventina di quadri. Dopo le Mille e una notte Zecchin abbandonò la pittura, per dedicarsi alle arti applicate.

© Riproduzione Riservata