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Nel tempo fermo di Alex Katz

Nel tempo fermo di Alex Katz

Nei quadri del pittore americano le persone e la natura sono sospese in un’imperturbabile «età dell’oro». Non è superficialità, ma un approccio alla vita diverso, disincantato. Al Mart di Rovereto va in scena questo mondo dove, in apparenza, ogni cosa è illuminata.


Ho voluto io il titolo La vita dolce per questa mostra di Alex Katz al Mart di Rovereto. L’inconscia – o volontaria – inversione del titolo del celebre film di Federico Fellini segna la distanza fra un’epoca ormai mitologica, che corrisponde agli anni della giovinezza di Katz, e l’ostinata volontà del pittore di rappresentare, senza inquietudine e turbamenti, un’età dell’oro, un tempo perfetto in cui tutto è fermo, in una eterna primavera, in una giovinezza senza fine. Tutto è immobile in Katz, le persone e la natura. Le donne sono eternamente giovani, la vita è sempre felice, gli animi sono imperturbabili. Katz è il pittore della atarassia.

Lo confessa all’implacabile curatore britannico David Sylvester, reduce da un corpo a corpo con Francis Bacon, assai disturbato rispetto a Katz: «Per un artista realizzare qualcosa che sia considerato come realistico rispetto al suo tempo e al luogo in cui si trova significa raggiungere il punto più alto della propria arte. Non è detto però che le persone vedano la sua arte come realistica, magari la vedono come astratta. Ma per me è realista. Prendiamo gli impressionisti, i loro quadri sono realistici? Addentrarsi in discorsi del genere però equivale ad aprire il vaso di Pandora, perché poi si arriva alla fatidica domanda: ma allora, che cosa è davvero realistico? Forse la risposta è semplicemente che le cose che io considero realistiche lo sono tanto quanto quelle che un altro ritiene tali. Alberto Giacometti è molto realistico ma se contestualizzato nei suoi luoghi e nella sua epoca. Non lo è molto rispetto alla mia epoca e ai miei luoghi. Questo non ha nulla a che vedere con la qualità artistica, si tratta della qualità della visione. Quando i quadri smettono di sembrare realistici è il momento in cui diventano arte con la A maiuscola».

Guardando le opere di Katz, è evidente che il suo programma non è, come mai dovrebbe essere per la pittura, il realistico o l’astratto. È esattamente quello che proviamo davanti ai personaggi della dolce vita di Fellini. Appartengono alla realtà? Sono personaggi della vita? O sono semplicemente figure, apparizioni inconsistenti, senza profondità e corporeità, distanti da sé e da noi? Alla fine del film, su una spiaggia, all’alba, Marcello sente una voce che cerca di richiamare da lontano la sua attenzione, gridando ripetutamente «Ehi!», e agitando le braccia: è Paola, una ragazza da lui conosciuta e che gli appare non molto distante, al di là di un fiumiciattolo. Marcello si volta verso di lei, cercando di comunicare, senza andarle incontro.

A causa del frangersi delle onde non riesce a sentirne le parole. Ella tenta di fargli capire a gesti quello che le è successo e di cui appare essere molto contenta. Marcello fa segno di non avere capito; poi, con la mano alzata, l’aria assorta e al contempo desolata, le manda da lontano un cenno di addio, andando a raggiungere gli amici. La giovane sorride con un’espressione che trascorre in un attimo dal rimpianto alla comprensione, alla dolcezza, e lo accompagna con gli occhi mentre si allontana. Ecco, come ne La dolce vita, non c’è rumore nelle tele di Katz. Non c’è emozione. Non c’è sentimento. Sono distanti e mute, se si pensa a quanto rumore c’è in Jackson Pollock, che pure Katz ama e ammira. Pollock si muove, Katz sta fermo. A Katz piace il silenzio. È interessante anche la consapevolezza della dilatazione nelle opere di Katz, che hanno generalmente grandi formati, ma sono definite come fossero dipinti di Vermeer o di Mondrian: «L’idea di esplorare nuovi orizzonti, sconfinati ma anche pieni di insidie, è molto stimolante. Nessuno prima si era mai avventurato nella realizzazione di tele di 3 o 6 metri alla prima. Si tratta della stessa tecnica usata solitamente per quadri di piccole dimensioni ma applicata su una scala molto più grande e devo dire che la sento molto affine alla mia sensibilità. È stato come scoprire ed esprimere una parte di me che non sapevo di avere».

L’interesse, il suo interesse, è non esprimere dubbi, traumi, turbamenti. Katz è l’imperturbabile, e non vuole essere disturbato. Non è interessato ai sogni, alle invenzioni, ai racconti; ma alla luce, al rapporto fra il pieno e il vuoto. Così vede, non giudica, estraneo ad ogni valutazione morale: «Quello che ho trovato è che il soggetto che mi interessa è la luce esterna». È anche notevole, per un pittore americano, che Katz dichiari la sua incondizionata ammirazione per Paolo Veronese, con una ingenuità che fa saltare tutti gli schemi e le mitologie dell’arte contemporanea.

Katz è candido, tranquillo, e intanto smonta decenni di pregiudizi, senza scomporsi: «Dopo aver visto Pollock mi sono detto, però, Tintoretto è davvero fantastico e Fragonard è meraviglioso. Dopo aver visto Pollock e de Kooning, Fragonard diventa sensazionale. Vedi cose diverse. Vieni coinvolto in una pittura diversa attraverso il prisma della pittura moderna. Mi è successa una cosa simile con la poesia, ho capito Byron molto meglio dopo aver letto Kenneth Koch. Pensare a ciò in cui è stato coinvolto de Kooning porta a Rubens e poi ho visto dei Rubens al Louvre quando avevo circa 35 anni e sono rimasto molto colpito dall’energia di quei quadri così come da quelli a Vienna. Veronese mi piaceva molto, non è barocco ma è “all-over”, un grande pittore “all-over”. Ho capito che dovevo dedicarmi alle opere di grandi dimensioni, ai grandi quadri figurativi, fra l’altro era un ambito in cui non c’era nessuno e per ottenere un risultato di grande impatto dovevi semplificare».

Sylvester lo fa parlare, e lui lo dice. Ed è interessante che, in un suo notevole saggio, ripubblicato nel catalogo della mostra al Mart, Robert Storr rinvii Katz al più classico dei pittori moderni: «Quando l’illustre accademico Jean-Auguste-Dominique Ingres dichiarò che “il disegno è la probità dell’arte”, si preoccupò di precisare che non si riferiva unicamente a una rappresentazione fedele e verosimile, ma a una sensibilità per le forme interne e l’integrità planare delle cose che solo la modellazione poteva rivelare. Da studente Katz si è formato nella tradizione accademica del disegno, che le opere di Ingres esemplificavano nel modo più elegante possibile rispetto a qualunque altro esponente dei suoi princìpi».

Ce n’è abbastanza per capire perché io abbia voluto Katz al Mart. Il resto, affiancato da Alberto Fitz, lo racconta, da par suo, Denis Isaia, smarcandosi, con l’ironico Mazzoli, dal «realismo obliquo» di Achille Bonito Oliva: «Un pittore sofisticato come Merlin James, grande sostenitore di Katz, si è addentrato nel tema con una formula retorica: “Alex Katz” scrive “non dipinge come se non ci fossero problemi. Dipinge nonostante i problemi. A causa dei problemi”. Per James, Katz appartiene a coloro che del mondo attuale “non offrono solo testimonianze” (chi denuncia le contraddizioni) ma offrono “strategie a fronte di quella che possiamo ancora chiamare ‘vita moderna’”. Il disimpegno come strategia è un tentativo di ricondurre il pensiero sulla vita alla vita stessa, convogliando in un’unità indistinguibile la teoria e l’azione, il soggetto e la pittura, l’arte e la vita.

Katz ha deliberatamente scelto di seguire la sua via, anche percorrendo il rischio di non essere parte della festa che invece è toccata in sorte ad altri artisti del suo Paese che hanno giovato del dominio politico e culturale statunitense dal 1945 in avanti. Tale scelta scagiona Katz dalle accuse di elitarismo. Si potrebbe infatti pensare a lui come al pittore della società radical chic e colta di New York, la città più snob e più europea dei ruspanti Stati Uniti… Katz ama la pittura e la pittura come un diario l’ha esposto all’amore del gioco, degli affetti, dei dintorni, delle pose, della danza e delle più familiari invenzioni teatrali. Come in un quadro di Fragonard il “non insegnamento” di Katz suggerisce che è meglio essere unici, giocosi e forse snob che arrabbiati, ipocriti e certamente uniformati. La vita è dolce, se ci piace».

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