Home » Attualità » Opinioni » Mario Reviglione, il simbolista ritrovato

Mario Reviglione, il simbolista ritrovato

Mario Reviglione, il simbolista ritrovato

Appartato rispetto alle correnti e ai movimenti italiani del primo Novecento, questo pittore torinese ha individuato ed espresso la sua misura in una ritrattistica intensa e inquieta. Oggi un’esposizione torna – giustamente – a riscoprirlo.


Per molti anni il nome di Mario Reviglione (nato a Torino nel 1883 e scomparso nel 1965) in posizione subordinata, fu, nella mia mente, legato a un suo dipinto memorabile: il Ritratto di Amalia Guglielminetti, realizzato tra il 1911 e il 1912, memorabile per l’intensità dello sguardo e l’eleganza dell’ambientazione, tanto da renderlo, per la forza seduttiva, simile alla Paolina Borghese di Antonio Canova. Andai a vederlo, ormai quarant’anni or sono, a casa della vedova di Italo Cremona. La memoria della fortuna critica non è favorevole. Severi Ugo Ojetti ed Enrico Thovez, che hanno sentenziato: «All’armonia dell’ambiente “Impero” non risponde la figura, rigida e legnosa, mancante di chiaroscuro e di carattere, poverissima di colore, dipinta con uno stento che vorrebbe essere semplicità ma che sdrucciola nel cartellone decorativo, senza averne la intonazione, la spontaneità e la freschezza».

Non è vero. Si tratta di pregiudizi, davanti a un’opera anticipatrice del gusto déco. Nessun dubbio che l’icona della Guglielminetti (del pittore di un solo dipinto) sia invece memorabile, e certamente un capolavoro; ma non tanto da avermi incuriosito ad approfondire la ricerca su Reviglione, fino alla formidabile proposta di un giovane pittore di grande magistero, Andrea Barin, di cedermi un dipinto sconosciuto, anche più iconico e potente: lo Stabat Mater, del 1927, il ritratto della madre di Reviglione, un’opera maestosa, incredibilmente su un fondo oro (con la tensione di un dipinto del quattrocentesco Alvise Vivarini), contro il quale l’anziana donna si staglia monumentale nella sua veste nera. Una testimonianza certamente più alta e autentica di tante del Novecento di Margherita Sarfatti. Un’opera non allineata, statuaria, apocalittica, mistica e metafisica insieme, nell’idea di disporre la donna sulla soglia della tomba. Il taglio regolare della fossa, così come la posizione della mano sinistra, non lasciano dubbi sull’interpretazione di un avviarsi della madre verso la «buona morte», consapevolmente, come conseguenza di una esistenza virtuosa. Con questa composizione Reviglione santifica la madre.

Non era facile trovare notizie recenti sul pittore, fino all’uscita di un quaderno della galleria milanese Daniela Balzaretti, a cura di Adriano Olivieri: Il lago dei poeti di Mario Reviglione. Con grande timidezza e discrezione Barin coltiva un’amoroso interesse per gli artisti torinesi dei primi del Novecento, tanto da indurmi a programmare una serie di mostre (oltre a Reviglione, Italo Cremona, 1905-1979, e Mario Calandri, 1914-1993). E abbiamo convenuto di affidare alla dottrina e alla passione di Olivieri, con Beatrice Avanzi, la cura di questa esposizione tanto agognata. Alcune circostanze hanno favorito l’impresa, con una accelerazione di convergenti interessi, che pensavo sarebbero rimasti confinati nella pura sfera della mia esperienza di collezionista, che talvolta indulge in capricci o debolezze. Intanto avevo arricchito la collezione di altri due dipinti originali e singolari: il vaporoso e onirico Ritratto in blu (la signora Cavagnari Gori) del 1921, una premonizione della Gradisca felliniana, sua coetanea in Amarcord, e la contegnosa Donna in poltrona, compiaciuta e impettita, forse l’ultima opera di Reviglione.

In complicità a distanza, arrivavano altri segnali di buon augurio: uno dei capolavori del pittore, La cappa nera del 1924, è entrato nella variegata e vorace collezione di Girolamo e Roberta Etro ed è esposto, trionfante, nella vetrina della loro boutique a New York. Opera fatale, inizialmente ne era stato concesso il prestito; poi abbiamo convenuto che la sua posizione fosse un avamposto americano da non perdere. Nel frattempo gli Etro si erano sbilanciati con un’altra sorprendente acquisizione di Reviglione: l’Autoritratto a duemila, con il gilet color caffellatte e la giacca di flanella con gli orli rilevati, la cuffia con due fiori appuntati, e gli occhiali tondi che specchiano l’ambiente. Un dipinto di gusto raffinatissimo, imperdibile e invidiabile. Dalla stessa fonte, un altro adepto del «club Reviglione», la galleria Berardi, arriva la più eccitante sorpresa: Il gatto persiano fa l’indiano, datato 1920, esibito in anteprima al Mart di Rovereto nella mostra Gustav Klimt e l’arte italiana.

Il gatto persiano è pura poesia. Vive sovrano, con il suo pelo lungo grigio-argentato e gli occhi verdi, pensoso su un cuscino di seta dorata, in una stanza con una grande finestra oltre la quale, lui imperturbabile, il cielo si accende di fuochi d’artificio che si riflettono su un vaso del maestro vetraio Zecchin. Tutta una festa, cui il felino contribuisce, ma non partecipa. Frattanto si riposizionano opere come il seducente Ritratto della signora Levi Muzzani del 1916, presso la galleria torinese Benappi, e la Zingaresca in bruno e argento, del 1920, in transito. Ormai determinato a realizzare la mostra, con molti disegni e fluttuanti paesaggi tardo-simbolisti, raccolti intorno al Lago dei poeti, individuato con felice intuizione dalla Balzaretti: cieli nuvolosi e riflessi sulle acque, cifra degli idilli di Reviglione, variazioni dell’Isola dei morti di Arnold Böcklin, mi accingo a verificare la rarefatta bibliografia, consultando il fascicolo de L’eroica (quaderno 1080/1081), dove apparve uno studio sull’artista nell’agosto-settembre del 1933. Mi colpisce, tra le immagini ormai conosciute, un nudo femminile elegantissimo, contro un chiaro di luna che si specchia nel mare, una visione potentemente evocativa, letteraria, concepita, oltre lo spirito dei tempi, nel 1923: una prova altissima di realismo magico. Su L’eroica appare in bianco e nero, ma è così seducente da farmi desiderare di possederlo, e iniziarne la ricerca.

Ricerca di breve durata perché, dopo qualche giorno, anticipato da emozionate segnalazioni, lo trovo alla fiera del Tefaf di Maastricht, il 16 marzo scorso, nel sempre curioso stand di Berardi, che ha raddoppiato la quota americana di Reviglione, vendendolo a Dirk Griffin. Il titolo di questa Venere moderna è Eternità. La caccia non è tuttavia finita. La mostra così completa, con tutto ciò che è stato umanamente possibile ritrovare, ha un catalogo con testi così ricchi e documentati da essere una vera e propria monografia. Dopo la Venere sensuale e distante, superbo e tetragono, fino ad essere respingente, ci attraversa con il suo sguardo indagatore, riconoscendoci colpevoli, il teologo Don Carena, intercettato verso il 1935 in due pose, in piedi in pausa, seduto e frontale in lettura, con una forza e una concentrazione interiore insolite. Parla il suo volto impietrito, parlano le mani, ricordano la determinazione del San Domenico di Niccolò dell’Arca, e annunciano i potenti ritratti, di analogo soggetto, per pura coincidenza e affinità ideale, di Andrea Martinelli. Una rievocazione involontaria e impressionante. Cosi il Mart apre le porte a un seguace inconsapevole di un pittore redivivo.

© Riproduzione Riservata