Spiccano la figura e le opere dell’intellettuale siciliano nato 100 anni fa. Un pensiero, il suo, mai conformista, messo sempre alla prova del dubbio e mosso da profondo senso di giustizia. Che gli ha procurato onori e nemici.
Leonardo Sciascia aveva l’età di mio padre, io ho avuto il privilegio di frequentarlo e di essergli amico. Era già un monumento, tra i vari scrittori contemporanei letti nelle scuole, quando divenne familiare, a me e a mia sorella. Nel senso di quasi un familiare. Era il 1981 quando, a Venezia, imprevedibilmente, Gesualdo Bufalino vinse il premio Campiello. Lo aveva accompagnato a Venezia, amico di sempre, Leonardo.
Fu tutto singolare quel giorno: grandi movimenti intorno ai finalisti che, con Bufalino, erano Gian Piero Bona, e i due antichissimi e leggendari Bino Sanminiatelli e Anna Banti. Mia sorella, assai giovane, era tra i membri della giuria popolare, e io ero convinto di aver ottenuto il suo voto per Anna Banti, che era stata la moglie del celebre storico dell’arte Roberto Longhi. Una pagina di storia.
In quella sera di settembre piovve e, per la prima volta, il premio non si svolse nel cortile di Palazzo Ducale ma al teatro La Fenice. Ricordo la frenesia di quel trasferimento, gli intrecci amorosi di quei giorni con gli arrivi a Venezia di amiche curiose e innamorate, mentre io a Venezia vivevo come ispettore delle Belle arti.
Tutto fu strano, elettrico, imprevisto, nella rapida lettura delle schede; e, contro ogni pronostico, vinse Bufalino. Grande fu lo stupore. Ma soprattutto imprevisto l’azzardo dei numeri: l’esordiente scrittore siciliano, cinquantanovenne, vinse per un voto. Quello di mia sorella che, senza farmelo intendere, diede il suo voto a Bufalino. Non c’erano i telefonini, ma la notizia si diffuse in fretta, così come l’indipendenza di quel voto. Immediatamente un drappello di persone si raccolse intorno a Bufalino; e io, con perfetto doppio gioco, mi vantai del voto di mia sorella. Sciascia era vicino e compiaciuto.
Nacque così una simpatia immediata che, nei giorni successivi, fra incontri e pranzi, si perfezionò. Sciascia era felice per l’amico esordiente di cui aveva intuito il talento, facendolo pubblicare da Elvira Sellerio. Quello che per noi era stata una sorpresa, per lui era una conferma. E io godevo dei benefici della scelta intelligente e coraggiosa di mia sorella. Una felice coincidenza determinò il seguito di quelle giornate veneziane. Sciascia andò per la sua strada a Milano o a Palermo. Bufalino doveva rientrare a casa, nell’amata Comiso, dove aveva (e avrebbe) vissuto l’intera vita, comunque al centro del mondo e al centro del pensiero.
Io avevo, in perfetta coincidenza, il convegno su Antonello da Messina; e scendemmo dunque, insieme, in automobile. Era con noi Alberto Bombace, il direttore generale dei beni culturali in Sicilia, uomo intelligente, ironico e spiritoso. Nacque così un’amicizia; e in quelle lunghe conversazioni Sciascia era con noi. Nonostante l’inizio della sua malattia, Sciascia è sempre stato un pensiero puro, un’idea. Non sono così tutti i grandi scrittori, pieni di limiti e fragilità psicologiche. Sciascia era uno scrittore civile, non ci parlava di sé, come fanno la gran parte dei poeti e degli scrittori, ma di noi. E non di noi come individui, ma di noi come parte di una società, di società complesse.
Anche la mafia è una società. L’onorata società. Ma Sciascia la analizza come un naturalista, un entomologo. Il moralista che è in lui si tiene indietro per non interpretare il mondo sulla base dei propri pregiudizi. Anche da questa posizione deriva la sua diffidenza mal compresa per i «professionisti dell’antimafia», che non va interpretata soltanto alla lettera ma come metafora. Il professionista lavora nell’interesse di qualcosa che è il bene della causa, prima del bene degli uomini. Così, può vincere anche chi ha torto, può vincere un buon teorema rispetto alla verità. A Sciascia interessa la verità. Verum ipsum factum. E il dilettante dà più garanzie del professionista. Non ha pregiudizi, non ha teoremi, non ha clienti da difendere.
Ne Il giorno della civetta Sciascia ce lo dice in modo chiaro, e perfino crudele: «Io ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà… Pochissimi gli uomini; i mezz’uomini pochi, ché mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini… E invece no, scende ancora più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi… E ancora più giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito… E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre».
Sono parole diventate celebri perché rispecchiano, nei diversi settori della società, dai criminali ai magistrati, un’indole psicologica che va oltre il bene e il male. Avrete osservato infatti che nella «umanità» di Sciascia non si parla di «giusti» o «ingiusti», di «buoni» o «cattivi», ma di una forza o debolezza interiore, di carattere. Ecco, Sciascia non esprimeva giudizi o opinioni, ma riproduceva il metodo di Baruch Spinoza: «Ethica ordine geometrico demonstrata». Nella quinta parte dell’Etica di Spinoza si dimostra che la mente umana, arrivando a concepire idee che non dipendono dal tempo, è eterna e, come tale, è una parte dell’infinità eterna dell’intelletto di Dio. La mente dell’uomo trova quindi in questa comunanza intellettuale con Dio, in questo reciproco amore intellettuale, la sua somma beatitudine.
Il Dio di Sciascia è la Ragione che ci indica il bene, che coincide con la conoscenza, con il sapere, ma è condizionata dagli affetti.
Nella terza parte dell’Etica, Spinoza dimostra come tutte le emozioni dell’uomo dipendano dall’impulso fondamentale di autoconservazione, all’istinto vitale del quale, in corrispondenza dell’aumento della propria forza, deriva la gioia, mentre, in corrispondenza di una sua diminuzione deriva la tristezza.
L’uomo «triste» è condizionato dagli affetti. In nome di questa ragione, che coincide con lo Stato, il cui ordine prescinde dagli affetti, Sciascia, già in un’intervista del 1983, sembra rispondere alle querule posizioni dei Saviano, degli Ingroia, dei Di Matteo, che si tengono ben stretti alle loro scorte non soltanto per paura ma perché hanno bisogno di apparenza, di propaganda, di mozioni degli affetti. Gli affetti, appunto, che alterano la ragione. È un conforto leggere in tempi di retorica e di intimidazione moralistica: «La mafia si combatte non con la tensione delle sirene, dei cortei e della terribilità. La mafia si combatte col diritto». I nostri tempi sono preda del disordine e dell’ignoranza, cui giova la retorica e l’emotività sommamente rappresentata dal populismo di quelli che chiamano gli altri populisti e stanno naturalmente tutti dalla parte del bene, del nobile, del giusto.
Non è la parte di Sciascia, il quale scrive: «Ma la democrazia non è impotente a combattere la mafia. O meglio: non c’è nulla nel suo sistema, nei suoi principi, che necessariamente la porti a non poter combattere la mafia, a imporle una convivenza con la mafia. Ha anzi tra le mani lo strumento che la tirannia non ha: il diritto, la legge uguale per tutti, la bilancia della giustizia. Se al simbolo della bilancia si sostituisse quello delle manette come alcuni fanatici dell’antimafia in cuor loro desiderano saremmo perduti irrimediabilmente, come nemmeno il fascismo c’è riuscito».
In un certo senso, continuando con i paralleli filosofici, la posizione di Sciascia sembra rispecchiarsi nella intuizione di Friedrich Nietzsche: «Il migliore scrittore sarà colui che avrà vergogna di essere un letterato». Per questo Sciascia procede geometricamente, e analizza nel passato e nel presente congiunture storiche prima che psicologiche. Gli interessa l’uomo e il rapporto con la società in ogni tempo. Tutto il resto è finzione, teatro: «Un’idea morta produce più fanatismo di un’idea viva; anzi soltanto quella morta ne produce. Poiché gli stupidi, come i corvi, sentono solo le cose morte».