Attraverso la straordinaria raccolta di Giampaolo Cagnin, ora raccontata nel volume Maestri della forma, si ripercorre una storia poco nota ma appassionante. E la forte espressione artistica di un’epoca trova giusto riconoscimento.
Esce ora, per le rinnovate edizioni di Franco Maria Ricci, a qualche mese della sua morte come presidio della memoria, Maestri della forma, un volume ricco di opere inedite e rare e di documenti, per illustrare la collezione di scultura di Giampaolo Cagnin, riservato e appassionato cultore di arte antica e moderna. Quando, quasi trent’anni fa, nella primavera del 1992, aprii nel Castello della Mesola una mostra sulla scultura del primo Novecento, non avrei immaginato di accendere un fuoco che sarebbe diventato un incendio per la passione, per la ricerca, per l’impegno di molti collezionisti e studiosi.
Mio compagno di strada, io soddisfatto in uno sfrontato collezionismo, lui applicato nella classificazione filologica, fu Alfonso Panzetta che, nel 1990, aveva pubblicato Il dizionario degli scultori italiani dell’Ottocento, un’impresa cresciuta e aggiornata fino alla più recente edizione del 2014. In questo trentennio si è molto approfondita la storia della grande scultura italiana tra Ottocento e Novecento e, con gli studiosi, in particolare Mario De Micheli, si sono distinti alcuni uomini sensibili che hanno visto meglio e più di altri nella più fantasiosa ed espressiva ricerca nelle arti plastiche che si sia data tra la morte di Canova e l’Arte povera.
Si andava, sullo scorcio degli anni Ottanta, nella locanda di Diego Gomiero, «da Mario», a Montegrotto, sui Colli Euganei, luogo beato.
Un solo ricercatore, prima di noi, dopo la sommaria ricostruzione di Francesco Sapori, l’aveva perlustrato meticolosamente, Michi Woulfson, console americano a Genova, un precursore che intercettò in una breve stagione 40.000 oggetti, tra quadri, sculture, ceramiche, mobili del Novecento italiano, dagli inizi del secolo al 1945, inglobando tutta l’arte dell’età del fascismo.
Ho voluto citare alcuni capisaldi di questo lungo cammino per arrivare all’ultimo dei neofiti, entusiasta, curioso, colto, lieve, di cui mi arrivò notizia, attraverso Luca Sommi, come intensivo e applicato collezionista di leonardeschi senza Leonardo, nella fertile campagna di Parma, dove si erano nel passato, con gusti classici e vasta ambizione, insediati uomini di gusto e formidabili collezionisti come Luigi Magnani e Mario Lanfranchi, per non dimenticare, uomo del Rinascimento, per ambizioni e gusto, l’editore, anche di questo libro, Franco Maria Ricci.
È Giampaolo Cagnin, persona tanto delicata quanto determinata, pronto a farsi mutante, permeabile a diverse influenze e, inevitabilmente, alla mia. Timido e riservato, perduto nella maniacale ricerca di opere dell’illustratore della Divina Commedia, Amos Nattini, pittore versatile e costante, non mi si era mai avvicinato, e aveva frequentato nel mondo dell’arte soltanto Philippe Daverio, traendone suggestioni originali e conoscenze coltivate.
Cagnin aveva occhi e orecchie per i maestri, desiderava assorbire informazioni e dottrina. Quando ci incontrammo nella sua bella casa in campagna capii che era perduto. Ma si era ritrovato. In quella prima visita c’era modesta traccia del mio gusto, filtrato a lui attraverso i miei libri; oggi esso è dominante. La galleria è popolata di sculture, e in larga misura degli stessi artisti che io ho individuato e raccolto negli ultimi quarant’anni.
Il percorso definisce uno scorcio dell’arte italiana post-unitaria per lungo tempo rimossa o sommersa. La scultura, benché solennemente esposta nelle piazze, è rimasta a lungo nella penombra. Il suo destino era stato meravigliosamente descritto da Robert Musil nelle paradossali Pagine postume pubblicate in vita: «I monumenti sono così palesemente irrilevanti. Nulla in questo mondo è più invisibile di un monumento».
Sembrano così salvarsi dal destino di opaca indifferenza i monumenti legati a rilevanti motivi politici, sociali, storici o artistici, quelli che «si impongono» o che sono espressione di un «pensiero o sentimento vivo». Il più delle volte esistevano come riferimenti per darsi un appuntamento, convenzionalmente. La situazione si complica quando i monumenti gloriosi eretti in pompa magna perdono il loro contesto solenne: il fu oggetto sublime diventa amorfo, puro ammasso residuale di metallo.
Ricominciammo a vederli, apprezzandone il valore formale con un libro coraggioso di Francesco Sapori Scultura italiana moderna, pubblicato dalla Libreria dello Stato, con un testo «elegante e paludato», e soprattutto tradotto sia in inglese sia in spagnolo, con l’obiettivo di dare visibilità internazionale alla scultura italiana dell’Otto e Novecento.
Abbiamo consultato l’inverosimile, trovando spazio e riconoscimento per i più remoti, rimossi e dimenticati scultori. Come in un codice segreto, era una emozione vedere riapparire i nomi di Romeo Gregori, Claudio di Montececconi, Quirino Ruggeri, Eugenio Baroni, Attilio Selva, Arrigo Minerbi, Renato Brozzi, Ermenegildo Luppi e mille altri, tutti individui solitari, senza gruppi o scuole di riferimento, e tutti maestri, inventori di forme, assorbite dalla storia, o annullati nelle celebrazioni del fascismo, come il più vertiginoso di tutti, cui toccò il primo premio della Quadriennale di Roma del 1939: Domenico Rambelli.
Quel fuoco della scoperta ha bruciato in me per 40 anni; e si riaccende ogni volta che intercettiamo un Libero Andreotti, un Corrado Vigni, un Filippo Cifariello, un Achille D’Orsi o un Alceo Dossena. Così può accadere che egli abbia la cera emozionantissima e io il bronzo severo di Prime ombre, la scultura più intima di Cifariello e, parimenti, che condividiamo il giovinetto ombroso di Nicola Parente o la Donna con il pettine e il Profilo continuo del Duce di Renato Bertelli, magistrale e incontinente, a fianco di due meravigliosi inediti di Libero Andreotti, che rigenera il gusto Liberty in forme nuove e originali. Fui il primo a parlarne modernamente, allestendone una mostra, sempre al Castello della Mesola, con capolavori e ritrovamenti.
Andreotti è un vertice della scultura del primo Novecento. È curioso che Cagnin si balocchi con monumentali gessi di Lina Arpesani, in cui la forma si disperde e dilaga. In compenso predilige Achille D’Orsi, potente scultore napoletano, che toccò il paradiso almeno una volta, con il bronzo I parassiti: due antichi romani accasciati su un triclinio, abbrutiti dal vino e dal cibo. Il riferimento al mondo classico è qui evidentemente solo un pretesto per una composizione a sfondo moraleggiante, incentrata sul tema della decadenza del mondo romano.
A questo proposito lo scultore Giovanni Dupré scrisse: «…l’idea è brutta, tanto che a molti apparve addirittura ributtante e schifosa; e io sentivo nel mirare quel lavoro due forze opposte, l’una mi cacciava di lì e l’altra mi teneva fisso; la bruttezza del soggetto e la sua forma mi ripulsava, e l’evidenza e l’arte, colla quale era espresso, mi attraeva e mi costringeva ad ammirare l’ingegno del signor D’Orsi».
Da questa decadenza esce un uomo nuovo, che viene dalla terra, formato nel lavoro, nel mondo contadino, Proximus tuus, seduto sulla terra in condizioni di stanchezza e abbrutimento che sollecitano la nostra pietà. Di D’Orsi sono anche diverse variazioni della riuscita Testa di carrettiere. A fianco di queste forme epiche, nel genere di un realismo sociale non ancora sufficientemente studiato, si pongono artisti che, sulla scia, tutta formale, e sperimentale nella dissolvenza della forma nella luce, di Medardo Rosso, puntano alla destrutturazione della forma, come lo scapigliato Ernesto Bazzaro, o Domenico Trentacoste di cui Cagnin possiede un capolavoro: il Ritratto di Charles Garnier. Ma l’opera certamente più importante, sulla soglia del fascismo, è la Pietà di Francesco Messina, presentata alla Biennale del 1926, un capolavoro di retorica e teatralità in cui sopravvivono motivi di prevalente simbolismo.