Francesco Arcangeli è stato uno dei maggiori critici novecenteschi che ha spiegato, in lezioni e saggi illuminanti, come l’arte connetta le opere di epoche diversissime.
Cinquant’anni fa entravo all’Università di Bologna. Pensavo che avrei seguito i corsi di letteratura italiana, ma ebbi la ventura e la fortuna di incontrare Francesco Arcangeli che ci mostrava mondi meravigliosi nelle immagini proiettate sullo schermo dell’aula dell’Istituto di Storia dell’arte. Ci raccontava, senza erudizione e distanza accademica, di artisti fino a quel momento sconosciuti, in un percorso «dal Romanticismo all’Informale», nel quale c’era spazio per parlare di tutto, di molti maestri emiliani e di grandi pittori inglesi e americani, in continui, illuminanti, confronti.
Storico e critico dell’arte, nato nel 1915, nutrito inizialmente da interessi letterari, all’Università di Bologna seguì i corsi di Storia dell’arte medievale e moderna di Roberto Longhi incentrati sul recupero critico e filologico dell’arte emiliana, in particolare di quella del Rinascimento estense, oggetto del saggio Officina ferrarese (1934), e di quella bolognese fra Trecento e Settecento, e destinati a cambiare il metodo stesso degli studi storico-artistici.
L’insegnamento di Longhi, di cui Arcangeli fu a lungo assistente prima di succedergli nella cattedra (1970), fu decisivo, indirizzandolo verso una nuova visione della storia dell’arte nazionale che, nel proporre una più approfondita attenzione alle singole individualità e agli episodi locali, affianca al tradizionale primato toscano, veneziano e romano quello di un’area non identificata e conosciuta da lui denominata «Padanìa».
Nel 1937 Arcangeli si laurea con una tesi su Jacopo di Paolo, pittore bolognese fra Trecento e Quattrocento, con lo stile e il gusto di scrittore che lo distingueranno. È la prima tappa di una ricerca che, negli anni successivi, attraverso studi, saggi e mostre, si propone di individuare, in concerto con l’opera di altri studiosi come Cesare Gnudi ed Eugenio Riccomini, una linea costante nell’arte emiliana, fra il romanico Wiligelmo e il novecentesco Giorgio Morandi che passa, fra gli altri, per Vitale da Bologna, Amico Aspertini, i Carracci, Reni, Cagnacci, Giuseppe Maria Crespi. Tipici del metodo intuitivo di Arcangeli sono i «tramandi», collegamenti analogici che rivelano continuità fra espressioni anche molto distanti cronologicamente e geograficamente.
Abbondano i tramandi nelle sue interpretazioni dell’arte ottocentesca e novecentesca già avviate nel 1948 (L’impressionismo a Venezia nella rivista La Rassegna d’Italia), ben precedenti la sua direzione della Galleria d’arte moderna di Bologna (1958-68) e le conduzioni, fra il 1957 e il 1962, del Premio Spoleto: Monet, messo in relazione con il Rinascimento in quanto fondatore di un nuovo modo di rappresentare, è il punto di svolta di una direttrice che, attraverso Courbet, collega il luminismo di Caravaggio alla grande novità dell’Informale (Dal Romanticismo all’Informale, Einaudi, 1977).
Proprio nell’ambito dell’Informale, promuove nella rivista Paragone (1954) Gli ultimi naturalisti (Ennio Morlotti, Pompilio Mandelli, Vasco Bendini, Sergio Vacchi, Mattia Moreni, Sergio Romiti), ravvisando nel loro senso panico, erede dello «spazio romantico» da lui individuato intorno a William Turner, John Constable e Caspar David Friedrich, necessità e vitalità che invano cercherà in tanta Avanguardia successiva. Traumatica si rivela invece la pubblicazione della sua monografia su Giorgio Morandi nel 1964, disconosciuta dall’artista scomparso nello stesso anno, per via degli sgraditi accostamenti a Jackson Pollock e Jean Fautrier. È stato il trauma più terribile nella vita di Arcangeli, e lo precipitò nella follia (un caso analogo ai Canti orfici di Dino Campana, perduti da Ardengo Soffici), dandogli anche quella poesia e quello slancio liberatorio che io riconobbi in lui nel 1970, quando, morto anche Roberto Longhi, poteva finalmente esprimersi in libertà di passioni e di pensieri, indipendente dall’autorevole ma incombente lezione dei due maestri, inevitabilmente condizionante.
Io ascoltavo il suo pensiero, finalmente diretto, emozionato ed emozionante, senza tormento dialettico. In quei «tramandi» dal Romanticismo all’Informale, come da Piero della Francesca a Piet Mondrian e da Wiligelmo a Pollock, c’erano il metodo e l’apertura di pensiero per capire tutta l’arte moderna e contemporanea. E anche il saggio su Morandi ripubblicato recentemente da Allemandi, nell’appassionante stesura originaria inedita, collezionata con grande impegno da Luca Cesari, non è uno studio sul pittore, minuzioso e circostanziato, ma un trattato sull’arte del Novecento attraverso l’osservatorio di un uomo che si è misurato, consapevolmente o inconsapevolmente, con 50 anni di storia tra avanguardie e guerre, dittature e persecuzioni, democrazia e liberazioni, confrontandosi con altri artisti attivi e reattivi agli stessi tempi, da De Chirico a Picasso, da Cézanne a De Pisis.
Arcangeli analizza le opere come un termometro per misurare la febbre del suo tempo, anche in rapporto con la risposta dei poeti, Eugenio Montale, Vincenzo Cardarelli, Thomas S. Eliot. Come non sentire la consonanza di alcune nature morte, senz’aria, con i tremendi versi del poeta inglese: «In un pugno di polvere ti mostrerò la paura»? E come non avvertire in quegli spazi silenziosi, ritagliati nel suo studio, l’eco di Montale? «Vedi, in questi silenzi in cui le cose/ si abbandonano e sembrano vicine/ a tradire il loro ultimo segreto…».
E come non vedere la contiguità della ricerca di Morandi con quella del più cifrato e misterioso artista, anche astratto, del secolo, in Europa, Paul Klee? Pensiamo ai paesaggi di Grizzana, luoghi solitari e riparati dell’anima di Morandi. Scrive Klee, ventriloquo di Morandi: «Nel grembo della natura, nel profondo della creazione, dove giace, ben custodita, la chiave segreta dell’universo». L’opera di Morandi, per Arcangeli, è il punto privilegiato di osservazione per vedere come tutta l’arte sia il «correlativo oggettivo» di un’epoca, con diverse intensità e personalità. Per Morandi come per Eliot: «Una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi pronta a trasformarsi nella formula di un’emozione particolare».
Morandi è anche, e viceversa, una chiave per capire un regista assolutamente moderno come Michelangelo Antonioni. Inequivocabile la conclusione di Arcangeli: «L’oscuro non sono i sogni, sembra dire Morandi, l’oscuro è la nostra vita di ogni giorno; e il niente non annulla, perché, al di là della sua entità astrattamente metafisica, scava la sua vanità dentro e attraverso un universo materiale che sopravvive, eternamente “esteso” davanti a noi: sopravvive alla volontà, alla misura, allo sforzo umano. Tale è la forza, oscura ma esplicita, di questa confessione morandiana; ed è la forza di chi affronta le avventure, non già seguendo il fascino delle terre lontane o dei mondi incogniti, ma riscoprendo i segreti, i sottofondi inquietanti e mortali di tutto ciò che conosciamo, o crediamo di conoscere anche troppo».
Come non cedere alla seduzione di tanto maestro? Io non avevo vent’anni. Ora sono all’altro capo della vita, più vecchio di lui quando ci lasciò.
