L’architettura, la luce e la bellezza del pittore quattrocentesco anticipano gli elementi che animano la pittura moderna, dal Cubismo a Piet Mondrian fino a Balthus. Ecco perché oggi l’artista «non eloquente» va riscoperto.
Abbiamo visto, in tempi moderni, l’opera di Piero della Francesca con gli occhi di Roberto Longhi, attraversi la sua celebre formula: «Sintesi prospettica di forma e colore»; ma già prima di lui Bernard Berenson ne aveva intuito la misura astratta, la dimensione atarattica, distaccata, essenziale, scrivendo Piero della Francesca o dell’arte non eloquente. Non eloquente, non retorica, non parenetica. Arte pura, pittura di luce. Arte concettuale.
La Flagellazione di Piero della Francesca, la sua opera più nota, è il simbolo della moderna pittura del Rinascimento, intesa come armonia totalmente mentale contrapposta a quella devota e sentimentale che troviamo in Raffaello Sanzio. Quello che colpisce nella Flagellazione è la netta scomposizione del dipinto in due scene che sono in qualche modo speculari: sul fondo, relegato in secondo piano, quindi con un impatto ridotto che contraddice il suo essere soggetto narrativo del dipinto, vediamo il Cristo alla colonna e i suoi carnefici; in primo piano, da quell’azione separati nel tempo e nello spazio, ma a essa uniti per un’eco di gesti e di atteggiamento, tre personaggi di cui non sappiamo nulla, di cui riconosciamo solo la contemporaneità all’artista e l’atteggiamento solenne, forse minaccioso, con cui due di essi pressano il terzo.
Molto si è detto sull’identità di questo trio, ma poco si sa, e il molto che si ignora nulla toglie alla percezione della grandezza e della modernità concettuale della composizione, del suo grande ordine geometrico, prospettico, e fatto di una profondità talmente illusiva da proiettarci dentro il suo spazio (cioè il Palazzo Ducale di Urbino, architettura somma del Rinascimento rappresentata dentro la pittura con un effetto assoluto che la rende spazio reale).
Pur, appunto, senza che vi sia alcun elemento che coinvolga in ciò che accade in tale spazio, dove la corrispondenza prospettica fa sì che le due scene, attraverso la separazione determinante di una colonna, costituiscano l’una il richiamo all’altra, simultaneamente relegando nel tempo il fatto contemporaneo e attualizzando quello remoto.
Se da questo dipinto togliamo il soggetto, che, come abbiamo visto, conta più che altro come artificio prospettico, otteniamo una composizione in cui l’architettura, dal pavimento alle piastrelle, al meraviglioso motivo della quadratura del luogo dove Cristo viene flagellato, determina linee che hanno lo stesso ritmo di un dipinto astratto – tant’è che il grande storico dell’arte Francesco Arcangeli amava spiegare Piet Mondrian, il primo maestro dell’Astrattismo, accostandolo proprio a Piero della Francesca.
Ecco dunque la forza di Piero della Francesca proiettarlo nel gusto moderno e renderlo, tra i pittori del Quattrocento, quello che oggi è più vicino, se non alla nostra sensibilità, alla nostra comprensione, attraverso quel senso di ordine scientifico che le sintesi compositive dell’architettura modema e del design hanno messo in evidenza, ricollegandosi a una fonte gelida, puramente mentale che Piero rappresenta nel modo più assoluto. Piero della Francesca si dimostra artista totalmente creativo: affronta per la prima volta questioni che verranno sviluppate dalla ricerca successiva, che saranno poi assorbite e trasformate da Luca Signorelli, da Perugino, da Raffaello, tutti spinti in avanti, nella loro ricerca, dal contatto con Piero della Francesca, grande teorico prima che grande pittore; e soprattutto ci raggiunge con un’immagine di una modernità inesauribile tanto da farci dire che più di ogni altro pittore del Rinascimento è proprio lui l’artista che oggi osserviamo come simbolo di quel tempo.
Se n’era accorto con acutezza proprio Bernard Berenson, che individuava nei personaggi dipinti da Piero della Francesca figure «non eloquenti», la cui funzione è cioè quella di essere meri oggetti nello spazio, elementi di un’architettura. Berenson sosteneva come la nuova attenzione per Piero dipendesse dal fatto che era visto un po’ come Paul Cézanne rispetto al Cubismo, e cioè un grande anticipatore. E infatti proprio il Cubismo troverà in Piero della Francesca, nella sua grande freddezza e nel suo distacco dalle immagini, un motivo di riferimento molto scoperto e dichiarato. La consapevolezza della modernità di Piero della Francesca è un’intuizione perfetta di Berenson, come punto d’arrivo della sua riflessione sulla essenza dell’arte.
E l’esemplificazione del nesso fra Piero e Cézanne è una conquista: «Dopo sessant’anni d’intima dimestichezza con opere d’arte d’ogni specie, d’ogni clima e d’ogni tempo, sono tentato di concludere che a lungo andare le creazioni più soddisfacenti sono quelle che, come in Piero e in Cézanne, rimangono ineloquenti, mute, senza urgenza di comunicare alcunché, senza preoccupazione di stimolarci col loro gesto e il loro aspetto. Se qualcosa esprimono, è carattere, essenza, menti e piuttosto che sentimenti o intenzioni di un dato me piuttosto che attività. La loro semplice esistenza ci appaga».
Ne conseguono una serie di impressionanti riflessioni sullo spirito dell’arte che prendono a pretesto Piero per un excursus dall’arte egizia all’arte bizantina, al gotico francese, all’ancora non identificato Marco Romano, lo scultore di Ranieri del Porrina a Casole D’Elsa, a Diego Velázquez, a Francisco Goya, a John Constable e William Turner, fino a Jacques-Louis David, Jean-Auguste-Dominique Ingres, Edgar Degas e Pierre-Auguste Renoir.
Mentre rielabora questa palingenesi dell’arte attraverso Piero della Francesca, Berenson si spinge fino a van Gogh, in virtù dell’assunto che sono artisti come Piero quanti «ignorano la eloquenza, la seduzione, il richiamo emotivo, la gesticolazione; e il loro sforzo è sempre stato quello di trasmettere allo spettatore il carattere essenziale, la pura esistenza del modello che avevano davanti».
Un’ampiezza di sguardo come questa di Berenson è impressionante, e tanto più ci dice di Piero quanto meno ne parla, non mancando di sorprenderci quando, pur così contemporaneo, si consente una divagazione privata che ai nostri occhi è sorprendente: «Facevamo colazione insieme, Oscar Wilde e io. Gli domandai come avesse trascorso la mattinata, e lui mi rispose che aveva posato per un pittore, il quale faceva una pianta, una veduta panoramica della sua faccia».
È proprio lì l’originalità, lo spirito dell’interpretazione di Berenson: «Si è quasi tentati di concludere che Piero non s’interessava ai personaggi umani come a creature viventi, agenti, senzienti. Per lui erano esistenze in tre dimensioni, che forse avrebbe sostituito senza rimpianto con archi e pilastri, capitelli, cornici e pareti scandite. In verità, è nelle sue architetture che Piero tradisce qualcosa come un sentimento lirico». Anche per questo Piero della Francesca è un pittore assolutamente contemporaneo. Balthus, per esempio, lo ha tradotto, intatto, nella lingua del nostro tempo.