È un eden perduto, la Bisentina, con storiche architetture, memorie letterarie, natura ancora intatta. Ora un progetto vuole recuperare le sue straordinarie testimonianze.
Il nuovo libro di Walter Siti, scrittore inquieto e apparentemente verista, La natura è innocente (Rizzoli), mi induce a ripercorrere con lui un viaggio nel passato dei luoghi e delle anime. Il 12 settembre del 2018, Siti venne a Sutri, dove io sono sindaco, per una laudatio di Pierpaolo Pasolini, in occasione della dedicazione di una strada allo scrittore.
Prima di ripartire Siti mi chiese il numero di Luca Rovati, imprenditore italiano da poco diventato proprietario dell’Isola Bisentina sul lago di Bolsena. Parlammo di quel luogo, ma non avrei mai immaginato di trovarlo al centro, non di un lago di origine vulcanica, ma del vulcanico racconto della vita di un amico, Giovanni del Drago.
Ero stato sull’isola con lui, nei primi anni Ottanta, per la visita quasi esclusiva di alcuni affreschi vicini a Benozzo Gozzoli nella Cappella del Crocifisso. Quanti incontri, quanti anni di amicizia! L’ho sentito, lontano, distratto, l’ultima volta al telefono mentre ero, inconsapevolmente, in un altro luogo fascinoso e del tutto abbandonato, a Roccapiemonte, in provincia di Salerno, Villa Ravaschieri, da Giovanni ereditata e certo pochissimo frequentata.
Nel parco della Villa c’è la cosa più preziosa: la cinquecentesca cappella di San Vincenzo, progettata nel 1720 dall’architetto Ferdinando Sanfelice. Giovanni fu gentile e, quasi stupito, diede indicazioni a Vincenzo Coppola di accompagnarmi nella visita notturna. Ci proponemmo, convinti di essere eterni, di incontrarci a Roma o a Bolsena, come negli anni precedenti. C’era una strana affinità fra noi, uno spirito comune di sfida delle convenzioni, per lui forse più difficile per l’età e per la formazione aristocratica.
La sua leggenda era stata alimentata da uno dei miei amici più stretti, Gian Antonio Cibotto, al quale si deve anche il destino di mia sorella Elisabetta nel campo editoriale. Il genius loci del Polesine, per il suo lavoro di critico teatrale, andava di festival in festival, da Asolo a Todi, da Cividale a Monticchiello, da Montepulciano a Spoleto, dove un’altra Del Drago, la fascinosa Domietta, furoreggiava, con Doris Pignatelli, nel bel mondo che Alberto Arbasino racconta in Fratelli d’Italia.
Cibotto era stato stregato dalla Tuscia, veniva regolarmente a Ro, a trovare mia sorella e i miei genitori, e ci parlava di luoghi e di persone, familiari e amate: in particolare, con morbosa affezione, di Vetralla e di Giovanni del Drago, quasi un personaggio letterario, tra don Giovanni e Dorian Gray. Chissà perché Vetralla, così vicina a Sutri, piuttosto che Bolsena? Siti scrive: «Negli anni Ottanta, il palazzo del Drago è frequentato dal circolo Visconti (cioè da Luchino e dalla sua corte), da Letizia Moratti e Bice Brichetto, da Antonio Cibotto ed Elisabetta Sgarbi, insomma dal bel mondo dello spettacolo e della cultura – oltre che, naturalmente, dai Ruspoli, dai Corsini, dai Chigi, dai Trivulzio e da nobiltà assortita che intrattiene con l’altro bel mondo rapporti di sospettosa cautela – unico Giovanni a fare da ponte e trait d’union».
L’Isola Bisentina è il luogo del mito, è il sogno, in anni, comunque, romantici. «Giovanni si sente re e mendicante in uno stesso battito, capisce che la bellezza bisogna meritarla col tremore di una intera esistenza». Fu così. Nel suo romanzo Siti raddoppia la superficie dell’isola: non 17 ma 35 ettari. Disabitata dagli uomini, ma popolatissima di animali, è un luogo remoto che Giovanni animò con stagioni di concerti, di cui ho trovato nella biblioteca del Convento programmi, corrispondenza di Fabiana Cozza Caposavi, con i costi e i conti di quelle occasioni musicali.
Dopo la morte di Giovanni ho desiderato rivedere l’isola, grazie alla gentilezza di Rovati, con la guida di Primo, nel fervore dei lavori che la faranno rinascere. All’arrivo, dopo il viaggio su una barca lenta e fatale, sul molo da troppo tempo abbandonato, stupisce la grande mole della Chiesa dei Ss. Giacomo e Cristoforo, voluta da Ranuccio Farnese come tomba di famiglia. Sull’imponente cupola in piombo oscillava una croce. Il 15 luglio del 2018 la croce, alta tre metri, è stata simbolicamente fissata da Primo.
È con lui che qualche settimana prima, avevamo fatto il giro dell’isola, con metodo e incanto. Prima etrusca e poi romana, come documentano grotte e tombe scavate in epoca antica, alla fine del XIV secolo, l’isola divenne proprietà dei Farnese. Nel 1431 Papa Eugenio IV aveva affidato ai frati minori osservanti la costruzione di un convento francescano. Segue, salendo verso il monte, l’edificazione delle sette chiese, distribuite lungo il perimetro dell’isola. Ognuna è concepita davanti a uno dei sette paesi rivieraschi del lago.
La chiesa di Santa Caterina, detta della Rocchina, è attribuita ad Antonio da Sangallo il Giovane ed è una riproduzione della Rocca di Capodimonte, mentre la cappella del Crocefisso conserva gli affreschi, che rivedo, della scuola di Benozzo Gozzoli, e vi sento lo spirito di Piero della Francesca. La chiesa di San Pio Papa ricorda visita di Papa Pio II Piccolomini, mentre la cappella della Trasfigurazione si raggiunge nel punto più alto dell’isola. Le altre tre piccole chiese sono dedicate a San Francesco, Santa Concordia e San Gregorio Magno.
Le visitiamo tutte, continuando a salire fin quando non vediamo, in distanza, un paesaggio irreale, una galleria di alberi intrecciati di straordinario biancore, come sotto una coltre di neve. Il luogo è meraviglioso, a strapiombo sul lago, ma ci si avvicina malvolentieri, per il cattivo odore. La neve infatti non è un miraggio nella calura estiva, ma il guano dei cormorani che hanno, su quegli alberi, il loro rifugio.
Di lì scendiamo verso un vasto ripiano verde, che riconduce al convento, trasformato in residenza di campagna, con un giardino all’italiana e il porticciolo, dalla principessa Beatrice Spada, mentre a Milano si accendevano i fuochi dei futuristi. Da lei parte la storia che porta a Giovanni del Drago. Beatrice è moglie del duca Enzo Fiesco Ravaschieri; alla sua morte l’isola passa a Ornella Fieschi Ravaschieri, zia di Giovanni.
E qui è bello leggere Walter Siti: «Giovanni può considerare sua l’isola perché è lui che la riscatta da un abbandono secolare. Restaura per primo il convento degli Osservanti, alcune celle e la cucina in modo da potersi ritirare lì quando ha voglia di riflettere; dalle finestre scorge il lago color madreperla, l’isola Martana e il promontorio dell’etrusca Bisenzio; dall’altra parte il paesino di Capodimonte su cui torreggia il vignolesco Palazzo Farnese. Ascolta il rumore placido delle onde, le grida dei cormorani e delle oche canadesi; l’arruffato giardino all’italiana con le siepi d’alloro e di bosso attende le sue cure, il bosco appare inselvatichito senza rimedio (ma certe querce giganti e certe sofore nodose respirano sovranamente illese)».
Prosegue Siti: «Sarà la battaglia di una vita, Giovanni lo sa e se ne esalta; lavora in economia, le boiserie nuove le incolla alle vecchie trascurando di bonificare l’umidità delle pareti, sui muri del refettorio passa una mano di bianco senza verificare se sotto la patina scura ci siano tracce di affreschi. Ridisegna il chiostro spostando al centro la vera del pozzo e simmetrizzando le aiuole; appena l’isola è presentabile, la mette a reddito – ospita concerti in chiesa o nel pratone… Con quel che guadagna risistema le cappelle affrescate e il Rocchino, alta sentinella ottagonale coronata di ginestre; sovrappone al vecchio cotto le mattonelle di Vietri, in un ripostiglio della chiesa ne scova di antiche coi gigli Farnese». Ecco, Siti ha compreso il sottile legame tra Giovanni, che sempre ne parlava, e l’isola, e come una parte della sua anima resti in quei luoghi, solitaria.La incontrerà, nell’azzurro del cielo, in un giorno di maggio, Luca Rovati.
