È stata questa scrittrice e intellettuale americana, che si definiva «non binaria» già 30 anni fa, a demolire il concetto di genere sessuale. Oggi il suo pensiero è dominante. Ma resta sbagliato.
Wikipedia non perde tempo e ci informa che Judith Butler, nata in un corpo femminile nel 1956, si identifica come «non binaria» e preferisce essere indicata con il pronome «they» (loro). E non si può certo dire che non si tratti di una scelta coerente: stiamo parlando della donna (biologica, occorre specificarlo) che ha sbriciolato il genere e, nei fatti, ha fondato la cosiddetta teoria queer. Se oggi il concetto di fluidità, gli asterischi e l’idea che esistano più di due sessi sono noti anche ai nonni lo si deve per lo più a questa studiosa americana che a inizio anni Novanta decise, nemmeno troppo consapevolmente, di imprimere una devastante accelerazione alla decostruzione della civiltà occidentale.
Sono passati trent’anni da quando la Butler iniziò a insegnare all’Università di Berkeley, ovviamente in California, terra d’elezione di ogni transumanesimo contemporaneo. La sua prima opera dirompente, tuttavia, data 1990 e si intitola Questioni di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità (ora ristampata da Laterza). In questo libro Judith ha posto le fondamenta, a dire il vero piuttosto mutevoli, del suo pensiero riguardo l’identità sessuale, consegnando al mondo il suo primo comandamento secondo cui il genere è una performance. Spiegare cosa significhi non è semplicissimo, anche perché la prosa non è delle più cristalline.
Un esempio. Nella prefazione all’edizione 1999 del suo celebre tomo, la Butler scrive: «La tesi che il genere sia performativo cercava di mostrare che ciò che consideriamo un’essenza interiore del genere stesso è qualcosa che viene fabbricato attraverso una serie costante di atti, postulati attraverso la stilizzazione di genere del corpo. Così facendo, mostrava che quella che consideriamo una caratteristica interiore è ciò che in realtà anticipiamo e produciamo attraverso determinati atti del corpo, al limite, un effetto allucinatorio di gesti naturalizzati». C’è tutto: l’arzigogolo teorico, la speculazione intellettuale estrema, lo stile «french theory» che piace agli americani.
Le influenze di Judith l’oscura infatti sono in terra francese, tra quei pensatori che dagli anni Sessanta lavorarono sul linguaggio e sulla decostruzione di tutti gli assunti sociali e culturali europei, Jacques Derrida e Michel Foucault in particolare. Benché diverse tra loro e inizialmente non molto celebrate in patria, ottennero enorme visibilità negli atenei statunitensi già scossi dalla contestazione e pronti a tuffarsi nelle confuse acque dei vari movimenti del potenziale umano, New Age e simili. I filosofi francesi conquistarono l’accademia statunitense, che non solo recepì l’insegnamento ma fece di tutto per portarlo all’estremo.
Per capire l’impalcatura teorica della Butler, però, va risalita la corrente fino a Simone De Beauvoir e alla nota affermazione secondo cui donna non si nasce ma si diventa. E bisogna citare la poetessa e critica Monique Wittig, nata nel 1935 e mancata 20 anni fa. Fu lei a mettere su carta pensieri come questi: «Non c’è sesso. C’è solo sesso oppresso e sesso che opprime. È l’oppressione che crea il sesso e non il contrario. Il contrario sarebbe dire che il sesso crea oppressione, o dire che la causa (origine) dell’oppressione è da ricercarsi nel sesso stesso, in una divisione naturale dei sessi preesistente (o al di fuori) della società».
Butler ha rielaborato l’idea secondo cui a stabilire la differenza sessuale è una mentalità oppressiva patriarcale, da smontare e rimontare in maniera corretta. Sarebbe ingiusto affermare – come molti fanno – che la Butler abbia teorizzato come il genere sia solo un costrutto culturale che prescinde dalla biologia. Ha fatto qualcosa di più insidioso, spiega Enrico Redaelli nella monografia a lei dedicata pubblicata da Feltrinelli: «Quello di Judith non è un dubbio sulla dimensione culturale del genere, semmai sulla dimensione naturale del sesso. A essere messo in questione è proprio il sesso biologico, non semplicemente il genere. “Forse il sesso è già da sempre genere”, scrive l’autrice sin da Questioni di genere, “sicché la loro distinzione si rivela una ‘non-distinzione’” Sono i corpi la natura, a fare problema. È cioè la materia corporeità, l’anatomia, a trovarsi sul banco degli imputati, oggetto di un’indagine che smuove le convinzioni più radicate. Da questo punto di vista, la filosofia di Butler è molto più inquietante di quanto si creda. D’altronde, se non fosse inquietante non sarebbe filosofia».
L’identità sessuale non è mai un fatto compiuto, ma una produzione costante, uno spettacolo in cui ciascuno recita la parte che ha deciso di assumere. L’anatomia non conta. Ciò significa che la cultura e il desiderio del singolo non stabiliscono solo l’impatto sociale del sesso, ma il sesso stesso. La biologia è in secondo piano. Sylviane Agacinski, studiosa femminista e feroce critica di Judith, ha ben riassunto: «In Questioni di genere Judith Butler contesta anche le categorie di sesso (uomini e donne), in cui vede l’espressione di una «binarietà artificiale», costruita dalla “cultura eterosessuale dominante”. Il “sesso”, sempre scritto tra virgolette, sarebbe “una costruzione culturale, proprio come il genere” (maschile/femminile), di modo che non vi sarebbe in realtà alcuna distinzione tra i due. “Disfare il genere” equivarrebbe alla fine a disfare il sesso, una nozione “apparentemente naturale”, in realtà “indefinita”. La distinzione tra i sessi dovrebbe essere cancellata per lasciare il posto a una molteplicità di identità di genere basate su tipi di sessualità».
Qualcuno potrebbe chiedersi: dove sta il problema? Ognuno è libero di fare quel che gli pare. Certo, ma chiarisce Agacinski: modificare i corpi è, in parte, tecnicamente possibile. Tuttavia, «spogliarsi del seno o adornarsi di barba, caratteri naturali e, a un tempo, simboli convenzionali della donna e dell’uomo, non permette di “sovvertire” la “binarietà” dei sessi e dei generi, ma solo di giocare pericolosamente con il corpo» dice Agacinski. «Si resta sul piano delle apparenze – o dei simulacri, perché la ricostruzione dei corpi imita la morfologia di certi organi senza dare loro reali poteri funzionali. Né l’erezione maschile, né le capacità riproduttive maschili e femminili sono oggi tecnicamente riproducibili. La creazione di corpi biotecnologici compositi, può soddisfare alcune fantasie». Ma non elimina la differenza sessuale.
Il pensiero di Judith Butler è ora dominante, è riuscito a smontare il linguaggio e in parte gli esseri umani. Ma non ha potuto eliminare la realtà: i sessi esistono, non dipendono dalla parte che ciascuno intende recitare. Purtroppo chi osa ribadirlo rischia grosso: le accuse di omofobia e transfobia piovono in un lampo. Come sempre, alla rivoluzione (del sesso in questo caso) segue il terrore.