Nella sua opera, felicemente figurativa, si segue un importante confronto con la grande tradizione. Non si sottrae però ai drammi della contemporaneità: ed è capace di trasmettere energia, grida, respiri…
Giuliano Vangi è uno scultore. E,in quanto scultore, è un disegnatore. Molti anni fa, nel 1988, gli dedicai un libro, e qualche tempo dopo inaugurai un museo dedicato a lui, in Giappone. Siamo legati da un lungo affetto. E non è marginale che, tra gli artisti preziosi del Novecento, guardato da me con particolare attenzione ci sia un grande scultore dimenticato, Bruno Innocenti, che fu il suo maestro. Ci lega inoltre il rapporto stretto con il grande architetto, Mario Botta, cui si deve il Mart di Rovereto e che ha voluto, in due suoi edifici religiosi, le sculture di Vangi: ad Azzano di Serravezza (Lucca), al Santuario di Giovanni XXIII a Seriate (Bergamo).
Ci ritroviamo ora al Mart non soltanto per celebrare Vangi ma per misurare la sua resistenza nella figurazione, in tempi difficili, con tetragona coerenza, anzi con un processo inverso a quello degli artisti della generazione precedente che, da Fontana ad Afro, a Capogrossi approdano all’arte astratta: Vangi parte astratto e ritorna figurativo, con una profonda convinzione e una necessità di ritrovare l’uomo come centro inevitabile della sua opera, in continuità con la tradizione italiana e con le sue origini toscane. Per questo, per un artista nato a Barberino nel Mugello (Firenze) ha senso il richiamo a Giotto, e sarebbe cieco chi non vedesse il suo potente collegamento con la scultura delle origini; e prima che con i classici, cui abbiamo inteso accostarlo in questa mostra unica che insiste nel collegamento fra i maestri antichi e la modernità, da Caravaggio a Burri, da Botticelli ai Preraffaelliti, da Raffaello a Dalí.
Con Vangi, con la sua «gravitas», si risale al Romanico, ai Mesi del Battistero di Parma. Rivedo la testa che pubblicai nella copertina del libro sui disegni di Vangi e ritrovo la stessa forza della testa del mese di Agosto di Antelami. Non è una citazione: è una persistenza o, come l’avrebbe chiamata Francesco Arcangeli, un tramando. E, risalendo così indietro non sarà difficile ritrovare in Vangi i ritmi del Maestro delle metope del Duomo di Modena. Poi, naturalmente, è facile risalire ai confronti con gli artisti classici avvertiti della modernità, da Giovanni Pisano (necessario per Vangi misurarsi con i profeti del Battistero di Pisa, ora al museo dell’Opera primaziale), con l’emotivo Francesco di Valdambrino, con Matteo Civitali, con Donatello e con Michelangelo, e anche con il Michelangelo che guarda Masaccio.
Credo che sarà una esperienza indimenticabile vedere un artista contemporaneo, popolare, portato a un confronto con la quotidianità, misurarsi con le immagini eterne dei maestri. In Vangi infatti, da un lato ci sono l’urgenza e la violenza del reale, i suoi aspetti dinamici, in una vicinanza anche formale a Francis Bacon, dentro il quale esplicitamente alberga come un paradigma scatenante l’Innocenzo X di Velásquez, e il più locale, ma non meno disturbato, Alberto Sughi; dall’altro l’intatto rigore della forma e il culto della materia nella sua versatile vibrazione. Ma il suo spirito è nell’azione, nel movimento, proprio come in Bacon.
Scrive puntualmente Giorgio Segato: «L’uomo contemporaneo è il soggetto privilegiato delle sculture e dei grandi disegni di Giuliano Vangi: l’uomo del nostro tempo, noi, egli stesso, considerato nel rapporto con la condizione esistenziale, con lo spazio vivibile, di relazione, ma ancora di più, o, ancora meglio, con lo spazio interno, psichico… La materia è la materia del corpo e varia a seconda dell’energia che Vangi intende esprimere, concentrare, implodere, racchiudere o liberare, proiettare: legni policromi, marmi e pietre in composizioni variegate, bronzi, luminose fusioni in nichel, avori, con una sensibilità per il dialogo (nonostante le sue figure siano quasi sempre isolate.
Ma è chiaro che il riferimento siamo noi astanti: è a noi osservatori che parla, in rapporto a noi che agisce, guarda, corre, fissa, si volge, gonfia mostruosamente i muscoli, spalanca gli occhi in dolorosi, stupiti e muti interrogativi, o li rinserra ad ogni luce esterna ed interna in sforzi disumani) che il materiale interviene a facilitare, a rendere più disinvolto e più efficace, più drammatico e di una plasticità teatralmente più asciutta ed incisiva». La forma «grida», come in Bacon, come in Freud, anche senza volerlo. Sono coincidenze dei tempi, prima che influenze o convergenze, e Vangi non vi sfugge. Mentre giustamente rifugge dalle affinità meramente tecniche con un artista levigato e spirituale, quanto lui è realista ed espressionista, quale è Adolfo Wildt. Wildt cerca l’anima, Vangi il corpo. Non c’è dubbio, questo scultore ha diverse radici. E rende tutto estremo, drammatico ed estraneo a ogni forma di simbolismo e spiritualismo.
Coltiva la tensione della lotta, quella che Michel Houellebecq chiama «l’estensione del dominio della lotta». Nelle sue forme non c’è mai pace, ma sempre elasticità, dinamismo: che scolpisca il legno, che scateni il bronzo, che componga i marmi magari con onice oro avorio e corallo. Però anche la tensione ha un suo «pondus», che attribuisce alle sculture di Vangi una stabilità anche nel movimento.Vangi non è mai grazioso, anche se è sempre elegante. Ma, come è elegante la forza, l’energia, così, nei tanti confronti che abbiamo istituito, mi sono sembrati particolarmente pertinenti quelli con Tino di Camaino, in particolare con l’Angelo e il committente inginocchiato del Museo nazionale del Bargello, la cui forma è tesa, nervosa.
E poi – ma era prevedibile – con il nuovo San Pietro martire, ora nella Pinacoteca civica di Fabriano, identificato come Donatello da Alfredo Bellandi: un’opera severa e potente ma carica di vibrante umanità, con il pathos calmo, anche se talvolta crudele, che Vangi attribuisce alle sue sculture (vedilo nel confronto con l’Uomo vestito di grigio). Credo che, mai come in questa occasione, e anche nel dialogo supremo tra il Nicolò da Uzzano e le prime sculture in legno policromo di Vangi, Uomo in piedi del 1963 e Uomo seduto del 1964, si sia inteso, in una mostra, il significato profondo dell’opera di uno scultore e della sua sintesi suprema della tradizione dell’arte italiana. In una declinazione prevalentemente dolente, disillusa. Una mostra che mette a nudo l’artista, e ne rivela le origini e i temi di riflessione, in una storia che continua. Un’autobiografia in scultura.
Non ci sono antico e moderno, presente e passato. E non è un capriccio il desiderio manifestato da Vangi, e da me condiviso, di un accostamento a Michelangelo. Vangi respira, ansima con Michelangelo. Il linguaggio è lo stesso, e non c’è distanza né filtro del tempo. Per questo Vangi è diverso da altri artisti figurativi, da Messina, da Manzù. Forse declina in chiave narrativa il dinamismo di Marino Marini. E, ben più che nella pittura, nella scultura (come nel disegno) sembra di avvertire un’urgenza di trasmettere energia che travalica le epoche e gli stili. Come se il discorso plastico, dal mondo antico al mondo moderno, si concatenasse e riproducesse, senza soluzione di continuità, in un dinamismo che va dal Maestro di Olimpia a Canova e da Scopas a Bernini.
Vangi sembra nato per dimostrare questo teorema, nella coerente varietà della sua produzione scultorea. Che a essa poi si affianchi la varia ed espressiva esperienza del disegno dà la misura di un campo aperto e senza confini, in cui Vangi porta a compimento ciò che altri hanno iniziato; e così via, senza fine.
