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Garofano: «La violenza di genere  una ferita sociale mai rimarginata»

Garofano: «La violenza di genere  una ferita sociale mai rimarginata»

Femminicidio, stalking e violenza sulle donne: come la pandemia ha mutato commissione dei reati e sentire dell’opinione pubblica.


Le statistiche sono impietose: come riportato dal VII Rapporto Eures sul “Femminicidio in Italia”, dello scorso novembre, che ha comparato le cifre dei primi 10 mesi del 2020 con lo stesso periodo del 2019, durante i mesi del primo lockdown l’80,8% delle vittime conviveva con il proprio assassino. «Nel nostro Paese, ogni 12 secondi, una donna è vittima di violenza, sia fisica che morale, e ne viene uccisa una ogni tre giorni. Le donne appaiono come prede fin troppo facili da essere avvicinate e costrette a subire un ampio ventaglio di violenze, da quelle psicologiche a quelle fisiche, appunto, sino a soccombere spesso nei modi più macabri».

Luciano Garofano spiega a Panorama.it come molte delle vittime dei più odiosi reati a sfondo sessuale risultino spesso «emarginate, indifese ed abbandonate da tutti per i più svariati motivi, rappresentando facilmente l’obiettivo di uomini senza scrupoli che sanno di poter contare sul classico “favore delle tenebre”, inteso come vero stato di abbandono sociale».

Tossicologo forense, generale di brigata dei Carabinieri in congedo, già comandante del R.I.S. di Parma (Reparto Investigazioni Scientifiche), Luciano Garofano è uno tra i più autorevoli consulenti investigativi internazionali: si è occupato delle indagini sulla strage di Capaci e, successivamente, di casi giudiziari quali la strage di Erba, il caso di Cogne, il delitto di Novi Ligure, il delitto di Garlasco, i delitti del serial killer Donato Bilancia. Autore di numerose pubblicazioni che analizzano anche i nuovi mezzi di indagine scientifica, da alcune stagioni è una delle presenze fisse del programma televisivo “Quarto Grado”, in onda su Rete Quattro.

Generale, giusto un passo indietro.

«La comunità scientifica internazionale iniziò ad occuparsi di violenza di genere nel 1970 e l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, nel 1993, delineò il triste fenomeno in una “Dichiarazione” che per la prima volta regimentava gli aspetti giuridici oltre che sociologici, psicologici e politici di questo triste fenomeno».

Cinquant’anni di dibattiti.

«Poco sembra essere cambiato, nonostante dal 1999 esista anche la “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”, fissata per il 25 novembre: evidentemente non si riesce ancora ad arginare questa ferita sociale».

Le percentuali appaiono allarmanti.

«Da poco più di un anno a questa parte, i dati sono in preoccupante crescita: come riportato dalle ultime rilevazioni dell’ Eures, proprio la convivenza forzata è alla base delle forme di violenza denunciate. In particolare il numero dei femminicidi tra conviventi ha superato la soglia dell’80%».

Per essere più chiari, significa che…

«…che tra marzo e giugno del 2020 -il trimestre del primo lockdown preso come riferimento- ben 21 delle 26 donne uccise convivevano con il proprio assassino».

Pandemia e spinta all’isolamento: un mix micidiale.

«La situazione si è aggravata, considerato che dover rimanere a casa e non potersi muovere, ha negato la possibilità alle potenziali vittime di poter letteralmente fuggire dal proprio aguzzino».

Lei ha registrato casi paradossali?

«Assolutamente: la flessione nei femminicidi, mentre sono aumentate le vessazioni psico-fisiche che si trascinavano da tempo, come ad esempio persecuzioni su base stressogena».

Si parte da un semplice litigio familiare, insomma.

«Si litiga violentemente, scaricando sulla partner, notoriamente più debole, ogni forma di frustrazione».

Generale, analizziamo le nuove fattispecie.

«Innanzitutto stiamo registrando un’impennata nei reati informatici. Pensiamo che il Centro nazionale per il contrasto alla pedopornografia on line (Cncpo) si è imbattuto in cifre impressionanti: 3.243 casi analizzati, 34.120 siti web passati in rassegna. Di questi 2.446 hanno trovato posto in una black list per vietarne l’accesso dal territorio italiano».

Da ultimo, poi, il revenge porn.

«La “vendetta pornografica” -la cui disciplina italiana è entrata in vigore soltanto il 9 agosto del 2019 con l’introduzione dell’art. 612 ter del codice penale- si manifesta come esempio lampante della già delicata condizione giovanile. Addirittura pare essere diventato il reato dei giovanissimi».

Ovvero?

«I dati confermano -e qui la fonte è l’Eurispes- come di questa odiosa pratica si siano letteralmente impossessati gli adolescenti, se è vero che, ad esempio, sulla piattaforma Telegram, sono presenti numerosi canali contenenti miglia di messaggi di “vendetta sessuale”, i cui mittenti hanno un’età terribilmente bassa».

Si riferisce alla celebre app fondata in Russia nel 2013?

«Esatto. Sino a novembre scorso si registravano, infatti, ben 89 gruppi o canali sull’app Telegram dedicati alla condivisione di “pornografia non consensuale”, a volte anche pedopornografia, con circa 6 milioni di utenti complessivi; quasi il triplo rispetto a maggio».

Dati terribili…

«La scoperta è dell’osservatorio milanese “PermessoNegato” che a novembre ha pubblicato un rapporto e segnalato il caso all’Interpol e alla stessa piattaforma».

E gli effetti di tale violenza vendicativa?

«Oltre il 51% delle vittime contempla il suicidio come unica via di fuga, pur di uscire per sempre da questo incubo informatico. Solitudine, privazione della scuola, privazione degli spazi aperti fanno sentire i loro nefasti esiti».

In crescita esponenziale è anche la prassi dell’adescamento online.

«Parliamo del “grooming”, figlio di quest’eccessivo uso dei social, con centinaia di casi segnalati ed un incremento di vittime d’età compresa tra 0-9 anni. E’ evidente che il problema risieda nella mancanza di un’educazione digitale da parte della famiglia, visto che con troppa facilità si permette l’accesso incontrollato alla rete».

Insomma: un cambiamento epocale disarmante.

«Mentre in altre tipologie di reato, anche legate alla criminalità comune o a quella organizzata, lo Stato ha risposto con grande efficacia, se andiamo ad analizzare le cifre della violenza di genere, lo sconforto ci assale».

In che senso?

«Per combattere la criminalità sono nati gruppi speciali nelle Forze dell’ordine e gruppi dedicati nell’ambito della stessa Autorità giudiziaria: invece, per la violenza di genere non si è agito di pari passo. Ecco perché i numeri sono impietosi».

Comunque pare esserci una maggiore sensibilizzazione sociale.

«Questo sicuramente. Ma nonostante la sensibilizzazione ed un vero movimento sociale pronto ad occuparsi di quest’emergenza, purtroppo sono rimasti attivi tutti quei comportamenti stereotipati dei “carnefici” che non hanno permesso la diminuzione di questi odiosi reati che tutti noi, invece, attendevamo».

Cosa suggerisce, allora?

«Un doppio intervento: preventivo e repressivo. Dal 2016 si sono succedute ben due novelle legislative -l’ultima il c.d. Codice Rosso- ma sono fermamente convinto che non sia possibile riformare la materia a “costo zero”, cioè se non si possa disporre nell’ambito dell’Autorità giudiziaria o della Polizia giudiziaria di organici numericamente idonei e professionalmente preparati».

L’inizio di ogni indagine è fondamentale.

«E’ il punto di non ritorno. Per permettere che un’indagine sia la più efficiente ed efficace possibile, non può prescindersi, innanzitutto, dall’acquisizione -il prima possibile e con dovizia di particolari- delle più puntuali e dettagliate dichiarazioni della persona offesa, anche perché la vittima della violenza di genere ha diritto a sentirsi tutelata sin dalla fase iniziale di un procedimento penale».

Altrimenti?

«La vittima continua a subire violenze che progressivamente si aggravano, sino a sfociare, con una progressione da manuale, nel più classico dei femminicidi. La cronaca quotidiana parla da sola: donne vessate in tutti i modi che denunciavano da tempo, senza mai aver avuto tutela di sorta. Occorre concentrarsi su questo aspetto».

Insomma una sorta di “doppio binario”.

«Da una parte, in ambito preventivo, si assiste alla crisi delle tradizionali agenzie educative come la scuola. Sia chiaro: non che i docenti non facciano il proprio dovere, anzi; parlo di organici e risorse sottodimensionati, soprattutto per affrontare fenomeni estremamente complessi come violenza, bullismo e cyber-bullismo».

E dall’altra?

«La più tradizionale crisi valoriale della famiglia, sempre più lasciata sola. Appare, in questi mesi, talmente preoccupata per le scarse risorse economiche su cui poter contare, da risultare letteralmente “distratta” anche nei confronti dei giovani che smarriscono i propri riferimenti».

In sintesi…

«Se un giovane non ha riferimenti educativi forti, venendo meno le principali agenzie educative, è chiaro che potrà subire il fascino di ambienti aggressivi e violenti. Si tratta di un fenomeno complesso che meriterebbe un investimento economico altrettanto deciso, ma che dubito possa attendersi in questo momento storico».

Poi le ataviche carenze di personale hanno fatto il resto.

«Le forze dell’ordine, impegnate nel controllo della pandemia, sono state sottratte ai loro tradizionali compiti, lasciando sguarnito il terreno della tutela dei reati contro la persona. La nostra legislazione è alquanto precisa: mancano numeri e professionalità adeguate ai casi».

Parliamo di opinione pubblica: è mutata?

«Fortunatamente registriamo i progressi più auspicabili. La tematica della violenza di genere ha trovato, in questo periodo, terreno fertile su cui la gente continua ad interrogarsi e confrontarsi. Sino a qualche anno addietro non c’era nemmeno la consapevolezza della materia».

Permangono ancora i comportamenti maschili assolutamente esecrabili.

«Insieme al dibattito socio-culturale, occorrerebbe una forte componente educativa, capace di trasferire i tradizionali principi di rispetto, reciprocità, amore, sentimento, senza i quali ogni azione legislativa o giudiziaria rimarrebbe lettera morta».

Nel 2013 lei pubblicò l’emblematico saggio “Nei labirinti del male”.

«Arrivai a declinare il male grazie ad un’esperienza accumulata in anni di pratica. Cattiveria e malvagità raccontate in presa diretta, grazie ad episodi provenienti da ambiti socio-culturali del tutto differenti. Mi resi conto subito di quanto fosse importante investire nella prevenzione, nell’educazione culturale e sociale».

Parlarne è fondamentale.

«E’ il mezzo per spingere le persone a costruire una coscienza sociale, ispirata all’altruismo. Prendiamo il femminicidio: sappiamo dalle statistiche l’intero ambiente socio-familiare è perfettamente a conoscenza della vicenda, mentre a mancare è il coraggio di denunciare. E’ evidente che la rete familiare ed amicale non sono in grado ad abbattere il muro di omertà e di silenzio che cala attorno alla vicenda stessa».

Le vittime nel chiuso di quattro mura andrebbero supportate…

«Dopo essere state isolate dai loro aguzzini, chi sta intorno non aiuta a denunciare l’accaduto ed a portare avanti una vera battaglia di civiltà. Per me è puro egoismo sociale, visto che si tratta di episodi che non riguardano soltanto il ristretto nucleo familiare».

La violenza di genere nasce in contesti tipicamente maschili, a quanto pare…

«Le statistiche parlano chiaro. E allora perché non curare questi soggetti? Si tratta del retaggio di un’antica e mai sopita visione maschilistica della realtà che meriterebbe, oggi, la cura psicologia, psicoterapeutica, farmacologica. Il disagio mentale, spesso alla base della violenza di genere, è un disturbo: una malattia che meriterebbe un approccio terapeutico».

Si torna all’inizio della nostra conversazione:

«Alla base c’è il cattivo funzionamento della famiglia, dell’ambiente nel quale vive il possibile stalker. Ecco il ritardo culturale: se fossimo in grado di accorgerci di una situazione di disagio, potremmo avviare i nostri cari in percorsi di recupero».

Non possiamo non parlare di Denise…

«Purtroppo la piccola Denise ha pagato -e ancora sta pagando- anche per gli errori investigativi iniziali. Stanno emergendo i contorni di un’indagine superficiale, come denunciato pubblicamente, in queste ore, dalla stessa Dott.ssa Maria Angioni, allora titolare del fascicolo».

A proposito: c’è un passaggio che lascia interdetti.

«La Angioni ha sottolineato che addirittura all’epoca si fosse dovuta rivolgere ad un’altra forza di Polizia giudiziaria, non fidandosi più di quella che fino a quel momento era titolare della delega delle indagini: si verificarono imponenti fughe di notizie sulle intercettazioni. Ecco lo snodo: in ipotesi di sequestri di persona, come negli allontanamenti volontari ed in altre forme di “sparizione”, le primissime ore delle indagini sono fondamentali».

Un quadro desolante: forze di polizie poco efficienti ed un ambiente sociale omertoso…

«Per questo Denise e la sua famiglia continuano a pagare. Francamente non so quanto sarà possibile recuperare in termini investigativi, ma il ristretto ambito familiare, che avrebbe potuto rappresentare un vantaggio, all’epoca fu proprio l’anello debole dell’inchiesta».

Ed i nuovi strumenti investigativi?

«La tecnologia oggi a disposizione potrebbe consentire di fare deduzioni e collegamenti investigativi impossibili nel 2004 e, quindi, da questo di vista, Denise, Piera Maggio e il papà meritano un altro tentativo».

Il caso è ritornato alla ribalta in modo clamoroso.

«E’ bastato che un attrice russa in cerca di notorietà internazionale si spacciasse per una bambina scomparsa 17 anni addietro, per riaprire mediaticamente il caso e per farlo subito ripiombare in una sorta di oblìo da spettacolo. Terrificante».

L’aspetto più vergognoso?

«Soprattutto la strumentalizzazione fatta dalla televisione russa! L’occasione fornita da tale Olesya, ha fatto sì che tutti potessimo riflettere anche ascoltando gli episodi riferiti dall’allora pubblico ministero Maria Angioni: aspetti investigativi che non conoscevamo, e pure gravi».

La Angioni ha avuto molto coraggio nel segnalarli.

«Assolutamente. E quest’aspetto può fornire all’Autorità giudiziaria attuale, che potrà occuparsene, nuova spinta nel cercare di valorizzare elementi che forse allora, per i problemi segnalati, non vennero ben evidenziati».

Episodi di sciacallaggio sono terribilmente frequenti.

«Ricordiamo che accadde anche con la piccola Angela Celentano, scomparsa il 10 agosto del 1996: nel 2010 una pista investigativa condusse a tale Celeste Ruiz, in Messico. Tutti sperammo si trattasse di Angela, sappiamo cosa accadde».

Purtroppo i millantatori sfruttano anche il dolore altrui.

«Tutto ciò è esecrabile. Intanto si è riparlato di Denise, e magari ciò potrà portare ad una rivisitazione seria da parte dell’Autorità giudiziaria e degli investigatori. In realtà trattandosi di un sequestro di persona -reato permanente- l’indagine non si è formalmente mai chiusa».

Prossima mossa?

«Riaprire subito le indagini».

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