Con la dipartita di Angela Merkel, l’Europa resta orfana di un leader. E la bacchettata sulle dita di Mario Draghi al presidente turco potrebbe essere solo un inizio.
Chi conosce Mario Draghi racconta di lui che ha uno straordinario autocontrollo: difficile che gli scappi di dire qualche cosa che non voglia. Le assemblee annuali della Banca d’Italia, istituto di cui è stato governatore per cinque anni, o quelle della Bce, banca che ha presieduto per otto, non prevedono domande dei giornalisti, ma solo relazioni, a cui seguono saluti formali e strette di mano. Il presidente del Consiglio non è dunque uomo abituato alle insidie delle conferenze stampa e a domande che non siano accuratamente passate al vaglio dei portavoce.
Tuttavia, nonostante il «mestiere» di politico sia per lui una novità e non abbia una consolidata esperienza di trame di palazzo o di sgambetti fra partiti, è difficile che sui grandi temi Draghi faccia uscite involontarie: le gaffe non fanno parte del suo lessico misurato. Ne sanno qualche cosa a Francoforte, dove non l’hanno mai amato, ma dove, a differenza di Jean-Claude Trichet, il suo predecessore, o di Christine Lagarde che lo ha sostituito, non ha mai fatto scivoloni. Anzi, con poche parole, come il famoso «Whatever it takes», costi quel che costi, ne ha fatti fare ad altri, in particolare agli speculatori che scommettevano contro l’euro.
La premessa è d’obbligo per capire l’origine dello scontro con la Turchia. Alla domanda di un giornalista che gli chiedeva cosa ne pensasse dell’imbarazzante incontro ad Ankara tra il presidente turco e quello della commissione Ue, con Ursula von der Leyen lasciata senza sedia, Draghi ha risposto secco che Recep Tayyip Erdogan è un dittatore. La frase sottintesa era che da lui non c’era da aspettarsi alcun rispetto del cerimoniale. Al sultano turco, ovviamente, le parole sono andate di traverso e oltre a replicare dicendo che il presidente del Consiglio è un maleducato, che lui è stato eletto e l’altro no, ha reagito convocando l’ambasciatore italiano e minacciando la cancellazione di alcuni contratti con il nostro Paese, oltre a rafforzare le relazioni con la Libia.
Vista dall’esterno, si potrebbe dunque pensare che l’inesperienza politica del premier lo abbia portato, con una sola frase, a provocare un incidente diplomatico che rischia di costare caro all’Italia. Tra Ankara e noi, gli scambi commerciali sono pari a circa un punto di Pil, con 7,7 miliardi di esportazioni e 7,2 miliardi di importazioni. Senza contare che, grazie ad alcune nostre grandi imprese, siamo i primi investitori nel Paese guidato da Erdogan. In pratica, quello di Draghi sembrerebbe il suo primo vero scivolone in politica estera, con conseguenze economiche non secondarie. Ma siamo sicuri che sia proprio così e che al presidente del Consiglio la parola «dittatore» sia uscita involontariamente durante la conferenza stampa?
La mia sensazione è che quel sostantivo non sia stato pronunciato a caso, ma sia stato pesato con attenzione dallo stesso Draghi e vi spiego subito perché. È noto a tutti che Erdogan, negli ultimi anni, ha allargato la sua sfera di influenza nel Mediterraneo e nel Medioriente, creando non pochi problemi all’Europa e agli stessi Stati Uniti. Il ricatto esercitato sulla Ue con i migranti in fuga dalla Siria, le navi turche inviate in acque cipriote alla ricerca di gas nonostante i giacimenti siano già assegnati a Eni e Total e l’intervento a gamba tesa in Libia sono questioni aperte con l’ingombrante alleato (la Turchia fa parte della Nato).
Dunque, è difficile che definendo il sultano di Ankara un dittatore Draghi non avesse presente, oltre alla suscettibilità del soggetto in questione, anche le partite che lo vedono contrapposto all’Europa. Più probabile, invece, che gli fosse noto come dietro all’arroganza del despota ottomano si nascondano alcune fragilità economiche, ovvero una crisi devastante, con un’inflazione superiore al 15%, una svalutazione del 30% della lira e tassi d’interesse al 19%. Erdogan, nonostante i giri di vite contro l’opposizione, annaspa e se è arrivato a sostituire il governatore della Banca centrale dopo quattro mesi, il terzo in pochi anni, è segno che qualche cosa non va.
Vi chiedete però perché prendersela con Ankara? Be’, forse perché Erdogan ha la pretesa di insediarsi nel nostro cortile di casa, ossia in Libia, e averlo come vicino, in un Paese strategico sia per i flussi migratori che per le forniture petrolifere, può non essere piacevole. Ne sa qualche cosa la Germania, che ha costretto la Ue a pagare una vera e propria tangente alla Turchia pur di fermare l’ondata di profughi in fuga dalla Siria. Ma oltre agli interessi nazionali e geopolitici (lo stop al sultano probabilmente non dispiace neppure all’America), c’è forse un’altra ragione dietro all’uscita del presidente del Consiglio.
Con il prossimo addio al governo di Angela Merkel (la cancelliera ha annunciato che si ritirerà a settembre), l’Europa resta orfana di una leadership. Al momento, dopo l’uscita della Gran Bretagna, all’orizzonte non si stagliano statisti in grado di raccogliere l’eredità della lady di ferro tedesca. In Germania, al momento non pare esserci nessuno che sia in grado di impugnare lo scettro che fu di personaggi come Helmut Kohl. E in Francia Emmanuel Macron ha parecchi guai in casa propria e nemmeno si sa se riuscirà a farsi rieleggere. Per il resto, c’è un esercito di seconde file. A prescindere dai guai italiani, Draghi ha uno «standing» internazionale e soprattutto un carisma che pochi leader europei possono vantare. La bacchettata sulle dita di Erdogan, dunque, potrebbe essere solo un inizio.