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Fëdor Dostoevskij, il gigante

Fëdor Dostoevskij, il gigante

A 200 anni dalla nascita lo scrittore che ha raccontato la Russia dei diseredati non è mai stato così attuale. Come pure la sua vita da romanzo.


Insinuante come il peccato. Aspro come il delitto. E risoluto come il castigo. L’irrequietezza contraddittoria di Fëdor Dostoevskij rispecchiava quella del suo tempo e, contemporaneamente, della sua famiglia. Quando – giusto due secoli fa – nacque, a Mosca, nel 1821, la Russia degli zar aveva già iniziato la parabola discendente. Erano svanite le certezze che avevano accompagnato la vita dell’impero fino a quel momento, tanto che i più avveduti «sentivano» di vivere la stagione del tramonto.

Lo Stato era vecchio. La burocrazia insopportabile. L’autorità dei governanti debordava nell’arbitrio con il risultato che ognuno si sentiva in diritto di amministrare le cose pubbliche come fossero proprietà personali. Non c’era pace nemmeno in casa. Fëdor era il secondogenito di una famiglia sterminata dove si viveva come in caserma. Il padre era medico, figlio di un prete ortodosso e nipote di un nobile lituano, ma mostrava la predisposizione di un colonnello. Aveva scritto un decalogo puntiglioso di regole e regolette da rispettare, la violazione delle quali comportava un numero variabile di cinghiate.

Il momento delle punizioni era diventato una specie di rito. Avveniva a ore definite, alla presenza di figlie e figli i quali, da testimoni, avrebbero dovuto trarne gli insegnamenti opportuni. Questo spiega perché Fëdor niziasse a soffrire di attacchi di epilessia che misero a dura prova il suo equilibrio nervoso mentre fratelli e sorelle transitarono da un malanno all’altro.

Meno male che c’era la madre, erede di una famiglia di commercianti che avevano costruito una discreta fortuna economica e le avevano trasmesso il piacere per la musica classica. Fu lei a insegnare ai figli a leggere, scrivere e ad apprezzare gli autori classici ma, purtroppo, morì di tisi abbastanza giovane lasciando a metà il suo compito di educatrice. A dispetto delle incertezze sociali e della severità in casa, Fëdor mostrò di essere geniale e, quanto a interessi, abbastanza eclettico. Tanto che, inizialmente, s’indirizzò verso studi scientifici frequentando la facoltà d’Ingegneria al Politecnico di San Pietroburgo.

Non che quegli studi e quella scelta lo entusiasmassero. Seguiva le lezioni controvoglia e, tuttavia, riuscì a laurearsi senza ritardi. Partecipò alla selezione per entrare nel genio militare dell’esercito e anche lì, senza troppo impegnarsi e, anzi, mal volentieri, si classificò nei primi 10. Con quel risultato positivo, venne assegnato ai reparti di artiglieria dove prestò servizio come ufficiale. Manco a dirlo, l’intraprendere quella carriera dipese dalle decisioni del padre che – non è difficile intuirlo – impose al figlio la realizzazione di un’aspirazione che doveva essere soltanto sua.

Il padre non ebbe il tempo di godersi la soddisfazione del figlio ufficiale. Aveva preso a bere con l’effetto di peggiorare un carattere già di per sé rigido oltre l’accettabile. Le cronache lasciano qualche margine d’incertezza, tuttavia la versione più probabile è che sia stato ucciso dai contadini che lavoravano i suoi terreni.

Con loro metteva in pratica i sistemi che applicava in casa. Ogni mancanza equivaleva una punizione e, trattandosi di estranei, si sentiva autorizzato a infierire con maggiore durezza. Probabilmente esagerò, provocando la reazione di quella gente che (prima) si difese e (poi) passò all’attacco lasciandolo in terra morto – bocconi – mentre vomitava sangue e vino.

Fëdor lasciò l’esercito che non lo stava appassionando per nulla e cominciò a dedicarsi alla letteratura che, al contrario, rappresentava la sua vera vocazione di gioventù. Certo, lo stipendio da ufficiale non c’era più e la retribuzione di uno scrittore era quella che era. Furono anni di sacrifici al confine con la vera indigenza. Il suo primo lavoro, Povera gente, ebbe discreto successo di critica ma una diffusione ancora insufficiente per assicurargli il pranzo e la cena.

Lui raccontava la Russia povera, strapazzata dal destino e maltrattata dai poteri. Un po’ la sua storia e un po’ la storia di tutti quei disperati che affollavano le campagne e i sobborghi delle città in cerca di qualche cosa che consentisse loro di tirare a campare. Con le debite proporzioni e gli opportuni distinguo, i suoi lavori potevano rappresentare uno specchio credibile dei Miserabili di Victor Hugo. Dostoevskij riuscì a campare proponendo traduzioni dei classici dell’Europa occidentale: Balzac, soprattutto, del quale propose Eugénie Grandet e Don Carlos di Schiller.

Per scrivere scriveva, ma con guadagni sempre inferiori alle necessità. Pubblicò Il sosia che vendette poco e, a differenza del suo primo lavoro, suscitò anche critiche negative. Contorta la trama e troppo borderline i protagonisti, vittime di uno sdoppiamenti psichico della personalità. Propose agli editori Le notti bianche e, lavorando 40 ore consecutive, produsse il Romanzo in nove lettere.

Alla ricerca di spunti di cronaca da tradurre nelle pagine dei suoi racconti, riuscì anche a mettersi nei guai. Partecipò a una riunione di liberali che proponevano un programma politico di riforme radicali. E poiché era inimmaginabile che lo zar accettasse di ridimensionare il proprio potere per consegnarlo nelle mani di quei piccoli sovversivi, prevedevano azioni di forza per costringerlo a delegare ad altri il governo di istituzioni e governatorati.

Troppo spavaldi e sicuri di sé, vennero individuati dalla polizia, portati in carcere e condannati a morte. Fëdor, a fatica e all’ultimo momento, riuscì a convincere i giudici che la sua presenza a quella riunione non testimoniava la partecipazione al complotto. La sua era la curiosità di un intellettuale. Gli venne comunicato che la «domanda di grazia» era stata accettata quando stava con la schiena al muro, davanti al plotone d’esecuzione.

«A chi sa di dover morire, gli ultimi cinque minuti sembrano interminabili e rappresentano una ricchezza enorme. In quel momento, nulla è più incessante del pensiero “se potessi non morire e se potessi far tornare indietro la vita”. Ogni minuto vale un secolo intero». Lo scrisse nell’Idiota. «Non perderei nulla. Terrei conto di ogni attimo. E non ne sprecherei più nessuno».

Lo sfuggire all’esecuzione non significò riacquistare la libertà. Non subito, almeno. Lo rinchiusero nella fortezza di Omsk, in Siberia e solo dopo quattro anni, nel 1854, gli concessero di uscire dal carcere ma con l’obbligo di servire per altri due anni nell’esercito come soldato semplice. Quando ottenne la piena libertà, gli venne vietato di risiedere a San Pietroburgo. Prese residenza a Tver dove il problema di sopravvivere si presentò con analoga insistenza.

Sembrò che una via d’uscita fosse portare la letteratura nel giornalismo. I grandi scrittori a Parigi e a Londra proponevano i loro lavori sui quotidiani che, in alcuni giorni della settimana, pubblicavano il capitolo di un romanzo. Lo chiamavano feuilleton ed era un espediente per fidelizzare i lettori offrendo loro una storia avvincente con la firma di un personaggio di riguardo. La difficoltà consisteva nello scrivere capitoli corti da essere contenuti in mezza pagina di giornale, ognuno dei quali con un inizio e una fine chiaramente individuabile ma in un contesto assai più ampio.

Uno dei grandi capolavori della letteratura – Delitto e castigo – nacque così: un po’ per bisogno, un po’ per caso e un po’ per disperazione. La struttura del testo fu immaginata per rispondere alle esigenze giornalistiche: sei parti ognuna delle quali divisa in cinque o sei capitoli e un epilogo formato da altre due parti. La trama riferì la storia di un ragazzo che – premeditatamente – ammazzò un’usuraia. L’autore ebbe l’opportunità di recuperare memorie e impressioni del suo tempo da imputato, condannato e carcerato. Sempre con un insistito sguardo alle pene dell’anima. Parola di Dostoevskij: «Sono figlio del secolo del dubbio e so che fin nella tomba dovrò arrovellarmi».

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