La storia di un critico d’arte è storia di occasioni, d’incontri, di scoperte; s’incrocia con curiosità, ricerche, studi. Si manifesta come un’avventura, una battuta di caccia, una forma di gioco, anche d’azzardo. E poi una sfida, un corteggiamento, una conquista. Era nella mia indole la conquista, nella fattispecie più corrispondente ai mezzi e alle esigenze di uno studioso, come collezionista, o meglio, come raccoglitore di libri.
La passione la ereditai da mio padre che aveva iniziato da professionista borghese negli anni Cinquanta, con la modesta ma grandiosa raccolta dei classici della Biblioteca Universale Rizzoli. Ricordo quei piccoli libri color panna crescere negli scaffali di mese in mese, verso i grandi numeri (più di 1.500 titoli). E poi, di anno in anno, altri libri di scrittori contemporanei, in coincidenza con i premi letterari. Tra i primi Il figlio del farmacista (per facile identificazione), di Mario Tobino. Eravamo nel 1961. Poi il Male oscuro di Giuseppe Berto (1963). E poi nella prigione del collegio, i poeti: Baudelaire, Apollinaire, Jiménez, García Lorca, Cardarelli, Ungaretti, Machado, Montale, Saba, Cendrars, Whitman, Mallarmé, Rimbaud, Verlaine, Borges, Bergamin. Letteratura, educazione sentimentale, modelli di vita. E poi filosofi, Croce, Gramsci, Sartre, Camus. E grandi romanzi: La Certosa di Parma, Moll Flanders, Il giovane Holden, I Malavoglia, Il Gattopardo. Il desiderio di leggere tutto, la letteratura come vita, la Beat generation, Kenneth Patchen, Jack Kerouac, ma anche Louis-Ferdinand Céline, Henry Miller, Curzio Malaparte. E ancora Emily Dickinson, Leopardi, D’Annunzio.
Soltanto agli inizi degli anni Settanta, incontrando all’Università Francesco Arcangeli, il più antico allievo di Roberto Longhi, i miei interessi prevalenti volgono dalla letteratura all’arte, con conseguente nuovo orientamento della biblioteca, quando ancora era possibile dominare il mondo dell’editoria, essendo aggiornati su tutte le nuove uscite, saggi e cataloghi di mostre, degli editori di settore. Il desiderio di possedere tutto in un genere limitato. Mi sembrò allora possibile. E alcune importanti aste, nella seconda metà degli anni Settanta (in particolare l’asta dell’antiquario Ucci Ferruzzi a Venezia) mi consentirono di colmare molte lacune di reference books pubblicati nella prima metà del secolo, come la grande monografia di Paul Kristeller sul Mantegna o l’Andrea Riccio di Leo Planiscig. Testi fondamentali, libri mitici, rari e di difficile reperimento, la cui ricerca determinò aste specialistiche o vendite su catalogo. Di lì, e dalla frequentazione di librerie antiquarie, iniziò la mia passione più fondatamente collezionistica per la rarità di fonti dell’arte e storie locali, a partire dal Cinquecento. Dal rarissimo De sculptura di Pomponio Gaurico, del 1503, al ponderoso, con atlante (cioè illustrazioni), L’arte a Città di Castello di Giovanni Magherini Graziani, del 1898. Libri rari e preziosi, con legature più o meno originali, barbe e pagine rifilate, in un delirio collezionistico e un desiderio di completezza, insieme alle numerose pubblicazioni molto illustrate di un fervido presente, registrati puntigliosamente da Julius von Schlosser, nella sua La letteratura artistica.
Sono arrivato, in meravigliose cacce, con soddisfazioni immense, a raccogliere 2.800 titoli dei 3.500 indicati dal Von Schlosser. Circa otto anni di ricerca, con soddisfazioni e sorprese, tra il 1976 e il 1983. Più compiaciuto che euforico, ma sempre razionale, anche nell’aspirazione alla completezza in ragione della rarità, più che della unicità, dei libri cercati. Poi, esattamente trent’anni fa, l’illuminazione e la decisione, dopo avere studiato la psicologia di un collezionista-maestro perfetto, diviso tra libri, sculture e quadri: Mario Lanfranchi. Il primo dei tanti, grandi e piccoli, collezionisti incontrati una volta uscito dal dogma universitario che mi faceva guardare le opere d’arte come beni spiritualmente universali ma materialmente indisponibili. Riflesso di una visione idealistica.
Fino a quell’incontro le opere d’arte mi erano sembrate idee, pensieri, non cose. Inizia così una autobiografia per quadri che è la storia raccontata nel mio ultimo libro, Scoperte e rivelazioni. Caccia al tesoro dell’arte ( La nave di Teseo). La stessa cultura artistica di quegli anni tendeva a mitizzare, come mecenati e compagni di strada, i collezionisti di arte contemporanea, spesso associati con le opere e considerati complici animatori intellettuali degli artisti, sul modello della irraggiungibile Peggy Guggenheim. Ma più tardi sarebbe stato così anche per le collezioni Jesi e Jucker a Milano, o Panza di Biumo, o Gori a Celle di Prato o Berlingeri a San Basilio. In quella concezione, ispirata e sostenuta da Giulio Carlo Argan, e da altri critici militanti, al contrario del collezionista di arte contemporanea, quello di arte antica era poco meno che un ricettatore, un egoista che tratteneva presso di sé beni di tutti.
In quegli anni, con casa e collezione poco lontane da quelle di Lanfranchi a Roma in palazzo del Grillo e a Parma, a Santa Maria del Piano, l’unico collezionista ammirato e rispettato di arte antica, ma anche di arte contemporanea, in una perfetta complementarietà, fu Luigi Magnani, di cui nessuno avrebbe potuto mettere in discussione la finale destinazione pubblica delle opere raccolte, come ora le vediamo nella Fondazione Magnani Rocca a Mamiano di Traversetolo, a Parma, dominata dalla notturna Famiglia dell’Infante Don Luis di Borbone di Francisco Goya. Magnani poteva possedere, con pari legittimazione, Carpaccio e Morandi, Filippo Lippi e Manzù, Mazzolino e de Pisis. Impunito. Al punto di risultare il solo collezionista cui, concordi la chiesa e lo Stato, fu consentito d’acquistare un capolavoro di Albrecht Dürer, la Madonna con il Bambino, proveniente da un convento di monache di clausura a Bagnacavallo. Temporaneamente difficile da vedere anche presso Magnani, che ne era gelosissimo, sarebbe stato comunque impossibile vederla dalle suore.
Anche il meticoloso e ambizioso Magnani, meno curioso di opere rare di artisti cosiddetti minori, e rassicurato dai nomi da artisti come Filippo Lippi, Tiziano, Tiepolo, Goya, Cézanne, fu una conoscenza importante per farmi rientrare con naturalezza nella tipologia del collezionista, come più tardi il meraviglioso e inesauribile Amedeo Lia. Grandi personaggi perduti. Ma davanti a me, con la sensazione nuova un brivido di onnipotenza che era possibile possedere opere d’arte antica, non c’erano collezionisti rigorosi e metodici, e programmati per un destino di gloria che legava il loro a nome a quelle opere, come Magnani e Lia; ma personalità corsare, eccentriche e curiose, al limite del dandysmo o del puro divertimento, come Mario Lanfranchi, Luciano Maranzi, o letterati edonisti, ma intellettualmente sofisticatissimi, come Piero Bigongiari e Giovanni Testori e ancora, tra critica e letteratura, Luigi Baldacci e Alessandro Marabottini.
Da questi modelli, da questa dimensione del possibile, da questo divertimento della ricerca e della scoperta, deriva il mio collezionismo, confortato dalla ricerca inesauribile di antiquari originali e colti come Ettore Viancini, Fabrizio Apolloni, Mario Bigetti, Pietro Scarpa, Gilberto Algranti, Leo Poletti, Adriano Cera, Nando Peretti, Giuseppe D’Angelo, Carlo Virgilio, Copercin&Giuseppin, Bruno Scardeoni, Paolo Ponti, Agostino Vallorani, Danny Katz, Pierfrancesco Savelli, Giovanni Pratesi, Maurizio Balena, Romolo Eusebi, Marco Voena, Andrea Daninos, Peter Glidewell, Diego Gomiero e, più tardi, Tiziana Sassoli e Fabrizio Moretti, tappe necessarie di un viaggio nell’ignoto. Ultimo nel tempo, ma tra i più dotati di intuito e curiosità, Tommaso Ferruda. E tanti anonimi o dimenticati per battute fuggevoli e soddisfacenti. Perché, da quel 1983, io ho capito che quadri e sculture potevano essere più convenienti e divertenti del libro più raro, incrociando, in modo del tutto inaspettato, un capolavoro assoluto come il San Domenico di Niccolò dell’Arca, artista di leggendaria unicità, e arrivando alla conclusione che non avrei più acquistato ciò che era possibile trovare, di cui si poteva presumere l’esistenza, ma soltanto ciò di cui non si conosceva l’esistenza, per sua natura introvabile, anzi incercabile.
La caccia ai quadri non ha regole, non ha obiettivi, non ha approdi, è imprevedibile. Non si trova quello che si cerca, si cerca quello che si trova. Talvolta molto oltre il desiderio e le aspettative. Da quel momento avrei cercato e voluto soltanto ciò che non c’era. Questo è il divertimento ed è il mistero della ricerca: l’interesse per ciò che non c’è. Una storia iniziata trent’anni fa: così sarei entrato in un mare grande, in una storia di continui incontri, infinite eccitazioni, seguendo l’impulso di un dongiovannismo collezionistico. Nel percorso avrei incrociato nuovi cavalieri, desiderosi di affollare le loro stanze, di anime armate, tra horror vacui e cupio dissolvi: Gimmo Etro, Pier Luigi Pizzi, Federico Cerruti, e Luigi Koelliker, con più frenesia di altri.
