Nel 2018, Alessandra Giordano ha scelto il suicidio assistito, in una clinica svizzera. Ma non era malata terminale. Ora la giustizia ha ribaltato la sentenza che aveva assolto il presidente dell’associazione per l’eutanasia che l’aveva «istigata» nella sua decisione. Panorama aveva rivelato la vicenda.
«Grazie a mamma e alla famiglia, un bacio ai miei nipoti. Spero che possiate ritrovare la pace. Un abbraccio a tutti!». Ventisette marzo 2019, qualche minuto dopo mezzogiorno: Alessandra Giordano è in una stanza della clinica svizzera Dignitas. Invia al fratello un messaggio. L’ultimo. Poi butta giù un intruglio letale a base di sodio pentobarbitale. Il suo viaggio della morte a Zurigo è un caso giudiziario clamoroso. Dopo essere stato assolto in primo grado, Emilio Coveri, presidente di Exit Italia, associazione che promuove l’eutanasia, viene condannato in appello a tre anni e quattro mesi per l’istigazione al suicidio dell’insegnante siciliana. La 47enne di Paternò, nel Catanese, non era una malata terminale. Soffriva di una nevralgia dolorosa ma curabile: la sindrome di Eagle. Ma soprattutto era depressa, avviluppata in una nube che le offuscava l’esistenza.
Un’inchiesta clamorosa. Svelata in esclusiva da Panorama e dal quotidiano La Verità. Ad aprile 2019 il nostro settimanale dedica la copertina alla drammatica storia di Alessandra: «Eutanasia di una donna depressa» è il titolo. Sotto, nel sommario, l’atroce dubbio: «Qualcuno l’ha spinta a suicidarsi?». Quattro anni dopo, il secondo grado del processo conferma le accuse della procura di Catania: il paladino dell’eutanasia l’ha istigata alla «dolce morte» nella Dignitas di Zurigo. La stessa clinica scelta, a febbraio 2017, da Dj Fabo, cieco e tetraplegico. L’aveva accompagnato in Svizzera il radicale Marco Cappato, vessillifero del suicidio assistito. Tema controverso. Diventato, nel frattempo, uno dei punti dirimenti del Partito democratico di Elly Schlein.
I giudici etnei ribaltano la prima sentenza, dunque. Coveri, a novembre 2021, nel processo celebrato con rito abbreviato viene assolto dal gup Marina Rizza: «Il fatto non sussiste». Una sentenza contro cui oppongono il procuratore aggiunto di Catania, Ignazio Fonzo, e il suo sostituto, Angelo Brugaletta: «Coveri ha contribuito in maniera assolutamente decisiva e consapevole alla scelta della Giordano, determinandone o comunque rafforzandone irrimediabilmente il proposito suicidiario» scrivono il 7 marzo del 2022 nel ricorso. Ora la Corte d’assise d’appello di Catania conferma la loro tesi, dopo che la procura generale ha chiesto la riapertura dell’istruttoria, con la deposizione di familiari, amici e consulenti. La più intima confidente di Alessandra riferisce in aula: «Il problema della nevralgia le sembrava chissà cosa. Una fissazione. Era moralmente giù. Non accettava la depressione e indirizzava le sue energie su una cosa anziché un’altra». La sorella Barbara, sentita in udienza a marzo 2023, racconta che all’inizio il suicidio assistito era per Alessandra solo «bisogno di attenzione». Ma quando «Coveri entra nella sua vita», lei si mostra risoluta e determinata. Quell’ipotesi diventa più concreta.
L’indagine, coordinata da Fonzo, era partita nella primavera 2019. I magistrati, in sette mesi, raccolgono documenti e corrispondenza, rivelati poi da Panorama e dalla Verità. In particolare, i pm riescono a ricostruire il rapporto tra l’insegnante siciliana e Coveri, durato dal 2017 al 2019, che «determinava o comunque rafforzava il proposito suicida». Viene disposta pure una consulenza psichiatrica e medico legale. Gli specialisti concludono: Alessandra aveva una «depressione maggiore con caratteristiche miste», non incurabile né irreversibile. Come la sua sindrome di Eagle: «Un’ideazione ossessiva, centrata sul persistente dolore invalidante». A gennaio 2023, nel processo d’appello, viene così sentito Eugenio Aguglia, ordinario di Psichiatria all’Universita di Catania. Il professore spiega che, con le cure giuste, la depressione sarebbe migliorata. E la donna «avrebbe gradualmente abbandonato l’idea suicidaria» aggiungono i magistrati. Lei invece, a marzo 2019, raggiunge all’insaputa di tutti la Dignitas di Zurigo. I familiari si precipitano in Svizzera. Chiedono alla polizia cantonale di intervenire. Scongiurano la clinica di fermarsi. Ma l’unico contatto con Alessandra resta lo straziante sms inviato al fratello prima di morire. Partono le indagini. I magistrati scavano. Spunta un articolo pubblicato sulla newsletter di Exit e inviato ai soci a fine 2017. È il dettagliato racconto, scritto dallo stesso Coveri, del primo contatto con l’insegnante siciliana.
«Ha una malattia, e ultimamente ha dovuto smettere di lavorare» annota l’uomo. «Andiamo avanti a parlare per tre quarti d’ora, dopo mi permette di spiegarle che cosa deve fare, appunto, per andare in Svizzera a morire in esilio, ma con estrema dignità». Lei pare dubbiosa: «Ogni tanto mette davanti il fatto che lei è credente e io replico che pure mia moglie è cattolica, anche un po’ troppo leccabalaustre, ma entrambi ci si rispetta perché l’eutanasia significa decidere per sé stessi». Le sue tesi paiono convincenti: «Sono felice quando metto giù la cornetta» riferisce ancora Coveri agli associati. «Sento che, ancora una volta, ha prevalso la mia teoria: quella che la vita è nostra, di nessun altro. Tantomeno di quel Dio che vuole farci soffrire inutilmente e di tutta la sua banda. Passano 20 minuti. La richiamo e stiamo al telefono per un’ora e un quarto a raccontarci della nostra vita».
Dopo l’iscrizione a Exit, Alessandra contatta la clinica svizzera. Comincia a mettere assieme i documenti medici. «Emilio, stavolta ci sono riuscita! Il certificato è completo» gli scrive il 24 luglio 2018. Il giorno seguente, un altro sms: «Dignitas mi ha risposto. Mi faranno sapere al più presto! Io voglio essere positiva. Adesso si riuniranno e decideranno. Speriamo bene. Ciao». E ancora: «Grazie comunque per il sostegno e consigli che mi hai dato». Insomma, Coveri segue la donna passo dopo passo. E quando, il 30 luglio 2018, la clinica chiede quasi 4 mila euro solo per valutare la «pratica», l’insegnante s’indispone e gli manda un altro messaggio: «Emilio, ho bisogno di parlare urgentemente con te». Qualche giorno più tardi, la donna salda comunque la prima fattura. A cui si aggiungerà, una volta ottenuta la «luce verde», il saldo: altri 7 mila euro.
Una delle tante telefonate tra i due scoperte dall’analisi dei tabulati: 31 in appena quattro mesi, tra aprile e agosto 2018. Ma Coveri, davanti ai pm, ha sempre sminuito il suo ruolo: «La signora era una nostra associata e le abbiamo semplicemente fornito, su sua richiesta, le informazioni che le servivano per prendere una decisione. Una procedura normale. Abbiamo 5 mila iscritti e ogni settimana riceviamo almeno 90 telefonate di gente disperata. Ma siamo rispettosi della legge italiana e sappiamo che l’eutanasia nel nostro Paese non è ancora consentita».
Nell’ultima udienza del processo d’appello, il pm Brugaletta però contrattacca: «Se noi riteniamo sia lecito proporre alle persone che non versano in condizioni di patologia irreversibile, magari soltanto depresse, il suicidio come unico rimedio ai propri mali, che tipo di società siamo? Siamo una società più evoluta o una società più meschina? Incitiamo alla vita o alla morte?». I giudici catanesi hanno sciolto il dilemma. Coveri è condannato a cinque anni di reclusione, ridotti a tre anni e quattro mesi grazie allo sconto di un terzo della pena concesso dal rito abbreviato. Viene interdetto dai pubblici uffici per un lustro. E dovrà risarcire le parti civili che si sono costituite in giudizio: gli inconsolabili familiari che, con la loro denuncia, hanno fatto partire le indagini. Alessandra, prima di bere quel liquido mortale, scriveva loro: «Spero che possiate ritrovare la pace».
Dovranno accontentarsi della giustizia.