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Si fa presto a dire badante

Si fa presto a dire badante

Offerte insufficienti rispetto alla marea di richieste, costi spesso troppo alti per i redditi medi delle famiglie (che sono spinte a pagare in nero), una formazione professionale approssimativa. Intorno a queste «assistenti domestiche» si muove una realtà con tante ombre e dubbi. Eppure il loro ruolo sarà sempre più centrale per la terza età.


«Sono arrivato a casa da mia madre e ho trovato la badante che, con una birra in mano, guardava la televisione. Mia mamma, in camera sua, era immobile in condizioni pietose. Le ho detto che se ne sarebbe dovuta andare immediatamente e lei mi risposto candidamente: “Che cosa ho fatto di sbagliato?”». Lo sconcerto di Simona Carta, 58enne romana, può sembrare un caso unico. Invece le sue parole tratteggiano perfettamente il lato nero dell’assistenza italiana. Quello che non di rado accade quando la porta di casa dei nostri anziani si chiude e restano soli con le migliaia di badanti che li accudiscono.

Non c’è da stupirsi: in un Paese dove la popolazione invecchia – secondo Istat il 23,8 per cento degli italiani ha più di 65 anni -, il ruolo di queste figure è sempre più cruciale. Secondo l’Osservatorio Domina, si appoggiano a loro quasi un milione di famiglie. Un esercito di donne, prevalentemente straniere, che popola il mercato del lavoro domestico e dell’assistenza personale, e che vive adesso un crescente tumulto. Secondo i dati Inps 2022, i lavoratori domestici sono diminuiti del 7,9 per cento, con una marcata riduzione di quelli stranieri. L’Europa dell’Est continua a essere la zona geografica di provenienza preferita (316.817 persone, pari al 35,4 per cento del totale), seguita dall’Italia (30,5), e poi America del Sud (7,8) e Asia orientale (6,8). La regione con maggior numero di lavoratori domestici è la Lombardia (174.613 nel 2022), seguita dal Lazio (13,8 per cento), Emilia-Romagna (8,8) e Toscana (8,7); in queste quattro regioni si concentra poco più della metà di questi assistenti, ed è evidente un nesso fra età avanzata, Pil regionale (sono fra le prime 10 nella classifica) e indebolimento del «sistema famiglia».

Il fenomeno ha naturalmente origini composite. Dalla crisi economica che suggerisce una crescita del «sommerso» alla complessità della situazione geopolitica, con molte assistenti ucraine – tra le preferite – decise a tornare al proprio Paese. Come racconta Mariana, originaria di Vinnycja: «Mio figlio è stato chiamato a combattere, e temo per lui ogni giorno. Qui ho un anziano di cui prendermi cura. Abito con lui da oltre 10 anni. Le figlie lavorano e sono lontane. Ho dato le dimissioni sei mesi fa, ma la famiglia non mi lascia partire. Dicono che, fino a quando non avranno trovato un rimpiazzo, non è giusto che lo abbandoni. Il fatto è che il tempo passa, ma per loro non sembra andare bene nessuno». Il dilemma di Mariana svela molteplici, e spesso trascurate, problematiche. Si va dal mancato ricambio generazionale – l’età media si attesta sui 55 anni -, a carenze formative, per arrivare a dinamiche retributive che si rivelano non di rado insostenibili per anziani che hanno come unico fonte di reddito la propria pensione.

«Da quando mia madre non è più autosufficiente» commenta Simona Carta «la mia vita è cambiata. Passo più tempo a discutere con le signore che dovrebbero assisterla che a lavorare. Ogni giorno c’è un problema. Qualche mese fa ho scoperto che le avevano dato una scatola intera di tranquillanti e così ho messo le telecamere. E ho scoperto che l’ultima si portava degli uomini in casa, di notte, mentre mia mamma dormiva. Da quel momento sono in crisi. Non riesco più a fidarmi di nessuno». Eppure la fiducia è fondamentale. «Almeno quanto la formazione» nota Stefano Pepe, ceo di Badacare, network che conta 20 mila badanti e si occupa di selezionarle e formarle. «Per svolgere questo lavoro in Italia non sono richieste certificazioni né percorsi formativi obbligatori. Attraverso la formazione si riesce a valorizzare maggiormente il lavoro del badante e si danno più garanzie alle famiglie datori di lavoro. Oltre il 90 per cento delle famiglie che ci contatta ricerca personale convivente. Per oltre il 30 per cento delle famiglie la nazionalità dell’assistente è rilevante, con preferenza per le italiane».

Tra le mansioni più richieste ci sono l’igiene, l’aiuto per muovere l’assistito e la somministrazione di farmaci. Ma anche compiti domestici come la pulizia dell’abitazione, la spesa, la preparazione i cibi. Attività per cui non ci si può improvvisare, come spesso accade, o per le quali non basta un corso di qualche ora. Anche alla luce dello stipendio. Un convivente a tempo pieno registra 54 ore di lavoro la settimana con una retribuzione lorda mensile di circa 1.120 euro netti cui, cui aggiungere tredicesima, Tfr e ferie. Ma non è finita qui perché sommando i contributi (circa 270 euro) si arriva a uno stipendio annuale di circa 20 mila euro. A cui poi, ovviamente, vanno aggiunti vitto e alloggio. I dati parlano chiaro: oltre il doppio dei lavoratori del settore ha un reddito superiore ai 13 mila euro (circa 430 mila persone). Non male, considerato che la media italiana è di 20 mila e molto spesso gli straordinari vengono saldati senza ricevuta.

«Il lavoro in nero nel comparto domestico ha percentuali molto alte, e i contenziosi che possono aprirsi con maggiore frequenza sono quelli legati a posizioni lavorative irregolari» commentano dall’Associazione sindacale nazionale dei datori di lavoro domestico (Assindatcolf). «Secondo le stime, quasi sei lavoratori su 10 sarebbero senza contratto. Questa condizione, a nostro avviso, è dovuta a una serie di motivi che chiamano in causa entrambi i soggetti, lavoratori e datori, che hanno una reciproca convenienza a restare nel sommerso. Nel caso delle famiglie questa è spesso dovuta all’insostenibilità del costo del personale, a fronte di agevolazioni fiscali e aiuti diretti da parte dello Stato del tutto insufficienti». Da tempo Assindatcolf chiede la totale deduzione del costo del lavoro domestico. Uno sgravio che non solo consentirebbe alle famiglie di risparmiare (in base alla fascia di reddito dai tre ai cinquemila euro l’anno), ma anche di far emergere dall’irregolarità una grande fetta di lavoratori che oggi operano senza contratto. E spesso lo fanno a danno dei datori di lavoro. Proprio come Silvia, rumena nella capitale da vent’anni: «Sono caduta e mi sono resa conto di essere un’invisibile. Ho chiesto di lavorare in nero perché mi conveniva, ma adesso mi rendo conto di aver sbagliato. I miei datori di lavoro però non ne vogliono sapere, e allora ho deciso: gli farò causa».

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