Home » Attualità » Opinioni » Perché non c’è Dante nell’albero di piazza della Signoria

Perché non c’è Dante nell’albero di piazza della Signoria

Perché non c’è Dante nell’albero di piazza della Signoria

Nonostante la sua forma che sale verso l’alto, l’installazione dello scultore Giuseppe Penone a Firenze non è adatta a rappresentare l’ascesa dell‘Alighieri dall’Inferno verso il Paradiso, nel settecentesimo anniversario della morte del poeta. Rappresenta soprattutto chi l’ha realizzata.


Oggetto di una bordata di fischi senza precedenti da parte di fiorentini (e italiani), che l’hanno interpretato come umiliazione e mortificazione della città in cui è stato innalzato, e del Paradiso di Dante cui è stato dedicato, il «monumento» («non sapevo che Spelacchio fosse in tour», «povero Dante, chissà come si rigira nella tomba», «è meglio la gru che c’è dietro»; «se questo è il Paradiso, chissà come sarà l’Inferno») appare un’incomprensibile provocazione prima delle istituzioni, che l’hanno voluto, che dell’artista che lo ha concepito. Perché un albero rinsecchito per questa celebrazione solenne?

Non sarebbe necessario e nemmeno generoso, davanti a un artista in difficoltà, tornare sulla triste vicenda dell’Abete di Giuseppe Penone in piazza della Signoria a Firenze, se, alle domande di Emanuela Minucci su La Stampa, non fosse lui stesso a rivelarci che l’opera non ha alcun rapporto con Dante. «Guardi, certe ironie e certi commenti sono normali da parte dei fiorentini, anche simpatici per certi versi». E fin qui il malcapitato artista fa buon viso a cattivo gioco. Forse ne avrebbe detto male anche lui, se non ne fosse l’autore. Intanto è onesto, e riconosce: «Vorrei però precisare che quella scultura è stata fatta nel 2013, quindi non c’era alcun legane con l’anniversario dantesco né con Piazza della Signoria».

Alla faccia! E allora perché l’ha (l’hanno) messa lì? Vero è che, come aveva osservato Eike Schmidt, direttore degli Uffizi, «l’arte contemporanea crea sempre dibattito, e anche stavolta sarà così»; ma il dibattito dev’essere sull’argomento, che lo stesso artista esclude, con candore. Nell’incredibile intervista, prosegue: «È una riflessione sulla crescita del vegetale, sul suo avvitamento che tende verso l’alto, la luce». E anche se di «vegetale» non c’è molto nell’albero morto, Penone precisa: «L’opera nasce da un abete che ho trovato nel Cuneese, e che doveva essere abbattuto. Mi pareva adatto per sottolineare la sua crescita, spiraliforme, visualizzata (sic!) appoggiando sezioni di bambù ai rami di acciaio della struttura. Il tema era proprio quello dell’avvitamento e della tensione».

Tutto bene. Ma cosa c’entra con il Dantedì, a sua volta grottesco neologismo approvato dalla Crusca? Ci aiuta sempre l’artista, con disarmante ingenuità: «Se uno cerca un riferimento letterale forse non lo trova». Ah! Però subito si riprende, con un’acrobatica piroetta «spiraliforme»: «Ma non è in fondo un processo dantesco quello della linfa dell’albero che si inabissa fino alle radici e poi si rialza fino alla chioma, e dell’avvitamento della luce verso l’alto? Forse che Dante non è sceso sino agli inferi per poi sollevarsi al Paradiso e alla somma conoscenza?».

Ma Penone non si accontenta. Non gli basta Dante. Cerca il dialogo anche con Michelangelo Buonarroti, avendo perduto il senso della misura (e delle proporzioni): «E se ci pensa, l’idea della spirale c’è in molte altre sculture, per restare a Firenze anche nel David di Michelangelo, dove la tensione degli arti si avverte fino a poterla toccare». Difficile altrimenti, essendo una scultura. Non gli manca la considerazione di sé! E si sente, naturalmente, fratello spirituale di Dante, anche se rivela che la collocazione in Piazza della Signoria nel Dantedì è un equivoco, o una coincidenza, in forza del Covid: «La mostra, per dirla tutta, doveva essere inaugurata a febbraio, ma causa Covid è slittata a giugno. No, non dovevo mettere Dante a ogni costo in questo allestimento, anche se penso che, essendo io italiano, tutta la mia cultura e formazione sia impregnata di immagini dantesche. E quindi anche il mio lavoro, magari pure involontariamente, ha delle relazioni con il mondo così come ce l’ha trasmesso Dante».

Questa è un’ammissione importante, perché consentirebbe all’onesto sindaco Dario Nardella di smontare l’improvvida e spaesata installazione. E non è una questione semplicemente estetica, ma di rispetto per i cittadini ingannati. La fa troppo semplice, infatti, Penone, sottolineando l’assenza di collegamenti con Firenze e con Dante, proclamati invece all’inaugurazione: «Come tutte le opere anche la mia può piacere o non piacere. Dicono che questa scultura è un albero spoglio, ma se guardiamo bene non è un periodo felice, penso che traduca bene il tempo che stiamo vivendo».

Poi sembra annunciare sventura: «Di sicuro le mie sculture, anche sistemate in spazi pubblici all’estero, non hanno mai ricevuto critiche pesanti e soprattutto, pur collocate all’aperto, non sono mai state vandalizzate. In ogni caso si tratta di polemiche che si spegneranno presto, visto che la mostra chiuderà a ottobre». Una bella consolazione. Per lui e per noi.

Aspettare che l’opera venga smontata. Penone corre sul precipizio e, alla mia accusa di essere autoreferenziale e di proporre sempre lo stesso soggetto, cioè l’albero, tema in lui comunque prevalente, e in sé non criticabile, risponde, come per giustificarsi: «Ho fatto ben altri soggetti, lavori sul soffio, per esempio, sul respiro. L’amore per l’albero è nato nel 1968 quando avevo 21 anni. Un’epoca di minimalismo e semplificazione. Allora pensai a un’opera che proponesse la mia mano realizzata in acciaio che creava un contatto con un albero di una certa età, in un momento specifico. Il titolo del lavoro era Continuerà a crescere tranne che in quel punto». Titolo eloquente e profetico, per le note affinità tra il poeta e lo scultore. D’altra parte, «la bellezza dell’albero è inconfutabile, una forma che rasenta la perfezione, l’assoluto».

Ci fa piacere sapere da lui che , fino a 21 anni, «ha fatto ben altri soggetti», definiti, nella loro inconsistenza, «lavori sul soffio… sul respiro». Aria cioè. E che, da soli 53 anni, produce alberi (rinsecchiti). Che per lui, nonostante l’evidenza di declino e morte, «sono la perfezione, l’assoluto». Le persone semplici, quando pensano alla bellezza «inconfutabile» dell’albero, pensano all’albero in fiore, che può anche essere simbolo di vita eterna. Suggerisco a Penone di fare da Cuneo, via Firenze, una breve sosta a Lucignano, dove troverà uno splendido albero d’oro, conosciuto anche come Albero della vita, un’opera sublime che, lo suggerisco a Nardella e a Schmidt, sarebbe un vero, grande, luminoso omaggio a Dante. Si tratta di un reliquiario (alto circa 2,60 m), realizzato, tra il 1350 e il 1471, da Ugolino da Vieri e Gabriello D’Antonio per la Chiesa di San Francesco. Dal fusto centrale, appoggiato su una teca a tempietto gotico a tre piani, si liberano 12 rami (sei per parte). Alla sommità un crocifisso e un pellicano. I rami hanno foglie decorate e sostengono piccole teche per reliquie ai cui apici sono medaglioni, con miniature e cristalli di rocca, incorniciati da rametti di corallo.

A un’opera come questa, nell’arte, si può pensare, ricordando Dante. Io, con sommo gaudio, portai l’albero di Lucignano all’Expo di Milano, nel 2015, e fu festa per tutti. Nella natura come nell’arte la bellezza e la vita sono nell’albero in fiore, in primavera. L’albero secco è simbolo di male e di morte, come si vede nell’Allegoria della virtù e del vizio di Lorenzo Lotto, che Penone dovrebbe conoscere. Gli sterpi stanno dalla parte del vizio. E così il richiamo involontario di Penone al Paradiso, potrebbe essere corretto in quello all’Inferno (Canto XIII, quello di Pier delle Vigne): «Non fronda verde, ma di color fosco; / non rami schietti, ma nodosi e ‘nvolti; / non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco: / Non han sì aspri sterpi né sì folti / quelle fiere selvagge che ‘n odio hanno / tra Cecina e Corneto i luoghi cólti. / Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno…».

Ma è troppo tardi per la correzione. Penone si accontenta di pattinare sulla polemica non dubitando di essere, per i fiorentini, interessante come Dante: «Penso che la polemica sia stata fatta più grande di quello che è, in bilico fra divertente e surreale… Ma ciò di cui sono più convinto è che alla fine, osservando meglio questa scultura, qualcuno si accorgera che la spirale è vita. Anche tra i rami secchi». Qualche dubbio rimane.

© Riproduzione Riservata