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Dalla parte dell’italiano bistrattato

Dalla parte dell’italiano bistrattato

Il Politecnico di Milano ora chiede agli studenti stranieri di imparare la nostra lingua. Ma non sarebbe male la ripassassero anche gli universitari nati in questo Paese.


La notizia non è da prendere sottogamba. Da ora in poi gli studenti stranieri che vorranno iscriversi ai corsi universitari del Politecnico di Milano dovranno sostenere un esame che dimostri la loro conoscenza dell’italiano. Come ha spiegato il rettore del Politecnico Ferruccio Resta, «l’obiettivo è attrarre talenti dall’estero e fare in modo che contribuiscano alla crescita del Paese. Se l’inglese consente a tanti giovani di scegliere l’istituzione universitaria milanese, l’insegnamento dell’italiano diventa strategico nel trattenere chi si è formato nelle nostre aule. In questo modo permettiamo a giovani ingegneri, architetti e designer di inserirsi in contesti lavorativi locali, portando in dote una mentalità cosmopolita».

Difficile opporre al ragionamento del rettore Resta argomenti contrari. Infatti, se gli insegnamenti impartiti in inglese nelle università italiane hanno indubbi vantaggi dal punto di vista della conoscenza di una lingua ormai indispensabile in tutti i contesti lavorativi (notare che l’export, dunque i rapporti con gli altri Stati, rappresenta per il nostro Pil una parte sostanziale e irrinunciabile), la conoscenza dell’italiano da parte di studenti stranieri e di potenziali talenti per la nostra economia rappresenta non solo un antidoto al ritorno nei loro Paesi di giovani formati da noi, ma un incentivo a rimanere a lavorare qui.

Questo va in controtendenza nei confronti di due mode – chiamiamole così – diffuse in Italia. La prima è l’«anglomania» imperante e spesso dissennata, che ci porta all’utilizzo sempre più frequente di parole inglesi tranquillamente traducibili in italiano: vedi Green pass, Recovery fund, ecc. La seconda è che se vogliamo fermare la «fuga di cervelli» dobbiamo evitarla sia per gli italiani che studiano in Italia, e poi vanno a dare il loro contributo nei mercati esteri, sia per gli stranieri che si formano in Italia – magari sono anche eccellenze – e poi tornano a dare il loro contributo nel Paese d’origine.

Ma la questione sollecitata dal provvedimento del Politecnico di Milano è che forse sarebbe il caso di verificare le abilità linguistiche degli stessi italiani che si iscrivono alle università. Basti ricordare che alcuni anni fa, a un concorso per diventare magistrati, quasi un candidato su quattro fu bocciato non perché ignorava un articolo della Costituzione o del Codice di procedura penale, ma perché non conosceva l’italiano: molti degli esaminandi scrissero nel loro testo «perché» in questo modo: «xchè», sbagliando anche l’accento finale della «e» che notoriamente dev’essere acuto e non grave; e scrissero «che» con la k cioè «ke». Per tacere poi degli apostrofi messi al posto sbagliato e degli accenti sistemati così, un po’ come capita, della strage di congiuntivi, del genocidio di consecutio temporum, della punteggiatura decisa con il seguente criterio: la testa è la virgola, la croce è il punto. Tiro la moneta e decido cosa utilizzare.

Stiamo parlando di persone con una laurea magistrale che dovrebbero: 1) articolare un ragionamento giuridico; 2) trasporre tale ragionamento in un testo che sia italiano, non «cuneiforme» in una lingua sconosciuta a dizionari e grammatiche; 3) esporre tale ragionamento trascritto in un italiano condiviso e non in quella lingua ignota in cui lo hanno precedentemente riportato sulla carta. Per carità, bene hanno fatto i membri della commissione a bocciare tali candidati, anche perché, detto per inciso, se c’è una materia in cui viene richiesto un certo acume linguistico e la relativa precisione semantica, è proprio il diritto. Non si può comunicare il diritto con una lingua storta, sarebbe come lanciare con l’arco una freccia piegata in due e pretendere di fare centro.

Badate che queste non sono considerazioni senza riscontro nella realtà più vasta dell’università italiana: nel febbraio 2017, 600 docenti universitari, accademici della Crusca (i custodi della lingua italiana), storici, filosofi, sociologi ed economisti inviarono al governo e al Parlamento una lettera nella quale sostenevano la necessità di «interventi urgenti» perché molti studenti scrivono male in italiano. «È chiaro ormai da molti anni» lamentavano tra gli altri Massimo Cacciari e Carlo Fusaro «che alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente».

A chi è capitato di correggere una tesi universitaria sa che buona parte del tempo va speso, purtroppo in molti casi, a «restaurare» l’italiano più che a mettere a punto il contenuto. Bene ha fatto il Politecnico a prendere la propria iniziativa con gli studenti stranieri. Bene farebbe l’università tutta a procedere in questo senso con gli studenti italiani.

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