Il 4 agosto del 1983, l’esponente socialista diventava presidente del Consiglio. Nel segno di questo politico, tanto amato quanto detestato, cominciava un decennio cruciale nella vita del Paese.
Sembrò marginale che si trattasse di Bettino Craxi. Al momento del voto di fiducia del nuovo governo (4 agosto 1983) i commentatori si lasciarono suggestionare dal dettaglio che – primo nella storia della Repubblica – il premier fosse socialista, destinato – di per sé – a spostare verso sinistra il baricentro della politica. Sembrò che la scelta della persona fosse il risultato di un ripiego e che, per venire a capo di una quantità di veti incrociati, fosse emerso il nome di un outsider, persino abbastanza incolore. La valutazione che si trattasse di una soluzione d’emergenza, comunque esposta al condizionamento dei vecchi capibastone dei partiti, poteva essere condivisibile solo per metà. La mezza affermazione vera consisteva nel fatto che Bettino Craxi, in gerarchia, occupava un posto di seconda fila, destinato a diventare strategico, solo nell’impossibilità di attingere alla prima.
Accadde già, qualche anno prima – nel 1976 – quando il segretario del partito socialista Francesco De Martino fu costretto alle dimissioni dopo aver rimediato alle elezioni una sonora sconfitta. In quel momento, la dirigenza del partito socialista puntava a un’alleanza organica con i comunisti di Berlinguer e, immaginando di trovare conforto nel risultato delle urne, provocò la caduta del governo di Aldo Moro. I sondaggi (allora ancor più approssimativi) non trovarono conferma. Nel senso che il partito comunista fece man bassa di voti, registrando una crescita importante ma l’ipotetico alleato socialista lasciò per strada la metà dei consensi. Gli sconfitti si trovarono nelle condizioni di individuare una nuova identità e si affidarono alle valutazioni del Comitato centrale.
Riunione all’hotel Midas di Roma dove le correnti che animavano il partito sembrarono intrappolate dalle loro stesse pregiudiziali. Fu Giacomo Mancini a prospettare il nome di Craxi e, pur non comparendo nella proposta, parve evidente che la scelta dovesse essere intesa come «di transizione». L’idea trovò il consenso di Claudio Signorile che capeggiava la corrente «di sinistra» e non dispiacque a Enrico Manca, futuro presidente della Rai, che rappresentava i giovani.
Con 23 consensi (su 23) quell’uomo alto, robusto, calvo si trovò alla guida del partito. E, a dispetto del ruolo precario che gli era stato attribuito, accettò l’incarico con il proposito di fare il segretario per davvero. E lo fece indossando i guantoni del boxeur per dare addosso all’ideologia che era stata causa di quella loro débâcle e sostituirla con un’altra di segno contrario.
Analogamente e, quasi, in fotocopia, quando nel 1983, l’impasse riguardò il governo. Le fragilità politiche, acuite dalle incertezze economiche, legarono le mani al ministero di Amintore Fanfani che si trovò all’angolo, accerchiato dalla diffidenza, senza una praticabile via d’uscita. Le elezioni anticipate che seguirono (26 e 27 giugno 1983) decretarono uno sconfitto e nessun vero vincitore. La Democrazia Cristina – elettoralmente – finì per pagare per tutti. Il partito toccò il minimo storico con la perdita di 18 senatori e 37 deputati. I socialisti si arricchirono di 6 senatori e 11 deputati. Il risultato stava largamente al di sotto delle previsioni ma Craxi fu abile a trasformare la delusione in successo, come se si fosse trattato della vittoria napoleonica di Austerlitz.
Sulla carta, sarebbe stato possibile il governo del cosiddetto «compromesso storico» con comunisti e democristiani alleati. Ma lo zoccolo duro della Dc non voleva nemmeno prenderne in considerazione un’ipotesi per cui, dopo qualche schermaglia e un paio d’incarichi «esplorativi», toccò scegliere fra le seconde file dalle quali spuntò appunto Craxi: presidente del Consiglio di un «pentapartito» che, con democristiani e socialisti, coalizzò repubblicani, liberali e socialdemocratici.
Innovativo e controcorrente fin da subito, presentò il programma limitandosi alle linee generali. Però, fece distribuire un allegato di una ventina di pagine dattiloscritte che illustravano sette punti da dettagliare con migliore precisione. E, accanto all’esecutivo vero e proprio, istituì un «consiglio di Gabinetto» ristretto che avrebbe dovuto affrontare le questioni più spinose in sede preliminare, in modo da smussare le difficoltà sul nascere.
Per quello lo indicarono come «decisionista»: per dire – con l’aria di criticarlo – che rifiutava le mediazioni politiche cui si era abituati per andare al sodo e arrivarci anche in modo disinvolto. Lui si considerava erede del Risorgimento e non gli dispiaceva imitare Giuseppe Garibaldi che, senza troppi tatticismi, andava all’assalto con la baionetta in canna.
Gli atteggiamenti spicciativi, al limite del disprezzo non piacquero mai al Palazzo dove fu subìto, più che amato. I vari leader s’infastidivano perché sembrava che, di quel potere che gli era stato consegnato, fosse diventato il padrone. Giorgio Forattini prese a disegnarne la caricatura mettendogli addosso gli stivaloni di Mussolini. Lui non se ne dette pensiero e accettò, per così dire, la sfida. Per firmare alcune «note» sul giornale socialista Avanti! scelse come pseudonimo Ghino di Tacco che era un signorotto toscano impegnato a taglieggiare i viandanti a fine Medioevo. Nascondersi dietro l’immagine di un brigante rappresentò la certificazione estetica del fatto che i giudizi dell’apparato non gli interessavano. Peraltro, quello stile «alla garibaldina» piaceva alla gente che chiedeva concretezza e non chiacchiere. In larga misura, si trattava del ceto medio il quale, in cambio di risultati pratici, era disposto a passare sopra a una quantità di difetti che non erano né pochi né di poco conto: compresa una dose non trascurabile di tracotanza.
Risultava incoraggiante l’impressione di energia positiva che suscitava. Appariva risoluto, determinato, rapido di riflessi. Il tentativo di dare incisività all’azione di governo, dopo anni di anemia, meritava rispetto. Dava l’impressione di voler governare sul serio e, per raggiungere degli obbiettivi occorreva badare al sodo, mettendo nel conto anche una nota di insolenza e di spavalderia. Meglio i prepotenti agli impotenti. Sapeva quello che voleva e non aveva bisogno di giri di parole per dirlo. Non tollerava contestazioni e lo dimostrava nella sua efficacissima oratoria che farciva di citazioni anche raffinate ma che si caratterizzava per lunghe pause. Lasciare il pensiero in sospeso – assicurano i sociologi – è tipico dell’uomo, sicuro che nessuno approfitterà di quei vuoti per «prendergli il tempo» e interromperlo. Al contrario: è lo spazio lasciato per raccogliere cenni di consenso.
Innegabile che la sua autorità confinasse con l’autoritarismo ma solo gli avversari più risoluti non gli riconobbero che, insieme all’arroganza, mise in mostra il coraggio del leone.
Mettendoci la faccia, con il rischio di andare a sbattere, sostenne il referendum (9 e 10 giugno 1985) che congelava l’adeguamento automatico degli stipendi secondo una scala di valori misurati nei «punti di contingenza». Votare per tale proposta significava perdere una quota di stipendio in busta paga. Per questo sindacati e comunisti si lanciarono nella campagna elettorale con il proposito di far bocciare il referendum e mettere alle corde Craxi. Che, accettando il clima da assalto a forte Alamo, vinse. E, considerandone il contesto, stravinse.
Più ancora determinato qualche mese dopo (7-12 ottobre 1985) durante la crisi provocata dai terroristi di Abu Abbas che assaltarono una nave dell’Achille Lauro minacciando una strage. Vennero convinti ad arrendersi con la promessa di essere lasciati liberi. Quando stavano sull’aereo diretto verso Paesi amici il presidente Usa Ronald Reagan intervenne per farli atterrare forzatamente alla base americana di Sigonella, pretendendo la consegna dei prigionieri. Che sia difficile opporsi agli Stati Uniti è evidente: tenere testa a un duro come Reagan poteva sembrare velleitario. Ma Craxi la spuntò.
Lui apparteneva a quella categoria di persone capace di cavalcare gli avvenimenti finché erano loro a metterli in moto. Ma, il suo dna non conteneva la risolutezza di chi sa galleggiare se, i fatti, si trattava di subirli e starne a rimorchio.
Quando esplose lo scandalo di Tangentopoli fu l’obiettivo privilegiato di chi lo accusava. Francamente, gli addebiti peccarono di sommarietà quando pretesero di attribuirgli delle colpe «perché non poteva non sapere». Lui, finché gli fu possibile, accettò la sfida. Alle secchiate di fango, altro che defilarsi, non mise in campo né contrizione né rassegnazione. Piuttosto: rispose con minacce o col sarcasmo. E dai banchi della Camera (30 aprile 1993) si difese accusando: chi poteva proclamarsi estraneo a quel sistema?
Lo coprirono di monetine mentre usciva dall’Hotel Raphael di Roma dove alloggiava e fu a quel punto che decise di prendere la strada della Tunisia considerandosi in una sorta d’esilio. Come uno degli eroi in camicia rossa che gli piacevano. Da Hammamet non si mosse più e nel cimitero cattolico di quella spiaggia affacciata sul Mediterraneo è sepolto