La storia politica italiana è piena di odi fra persone costrette a convivere sotto lo stesso tetto. Ma i grandi uomini vanno avanti a prescindere dai risentimenti personali. I piccoli, invece, si nutrono solo del proprio ego.
Giuseppe Conte e Matteo Renzi non si sono mai presi. Nonostante il primo debba al secondo l’operazione con cui nel 2019 riuscì a succedere a se stesso, sconfiggendo Matteo Salvini con un incredibile cambio di maggioranza, il presidente del Consiglio ha sempre diffidato del leader di Italia viva, ovviamente ricambiato.
Il giurista di Volturara Appula diceva del senatore semplice di Scandicci come minimo che era una persona inaffidabile, mentre l’ex segretario del Pd ricambiava raccontando in giro che il premier era un incapace, «inadeguato al ruolo che ricopre». Si spiega anche così la guerra tra i due che ha portato alla crisi di governo. Perché è vero che nella mossa del Rottamatore c’è stato un calcolo politico, ovvero il tentativo di guadagnare più potere e anche più poltrone.
Ma non si può negare che a spingere Renzi a sparare a palle incatenate contro Conte ci sia anche un astio personale. Nella conferenza stampa in cui ha annunciato le dimissioni delle sue ministre, Teresa Bellanova ed Elena Bonetti, l’ex presidente del Consiglio ci ha messo un sovrappiù di cattiveria, attaccando personalmente il premier. «Un re nudo», secondo lui, che con il suo metodo di governo ha compiuto veri e propri «vulnus democratici», governando la pandemia ma non altro e facendo «un uso discutibile dei servizi segreti». Renzi non ha lesinato le accuse, attaccando più Conte che il governo e facendo trasparire che quella tra lui e l’inquilino di Palazzo Chigi era, in fondo, una questione personale.
Niente di nuovo, intendiamoci. La storia politica italiana è piena di odi fra persone costrette a convivere sotto lo stesso tetto. Basti pensare a Gianfranco Fini e a Silvio Berlusconi. Quando ancora erano alleati nel Popolo della Libertà, bastava parlare del Cavaliere per vedere il volto dell’ex segretario di An trasfigurarsi. Fini disprezzava Berlusconi nonostante quest’ultimo, quando ancora non era sceso in politica, lo avesse sdoganato, dichiarando che come sindaco di Roma avrebbe preferito il segretario del Movimento sociale a Francesco Rutelli.
L’endorsement infatti non impediva all’ex delfino di Giorgio Almirante di considerare il fondatore di Mediaset un parvenu della politica, anzi un usurpatore. In cuor suo, non vedeva l’ora che Berlusconi venisse sconfitto per poterselo levare di torno. Alle Europee del 1999 provò a contribuire all’uscita di scena, stringendo un’alleanza con Mariotto Segni per la nascita di un movimento politico liberal-democratico e di centrodestra. L’Elefantino, che richiamava il simbolo dei conservatori americani, non uscì dallo zoo della politica, perché gli elettori moderati preferirono Berlusconi a Segni e quelli di destra di allearsi con un ex democristiano non avevano voglia. Fallito l’assalto, Fini ci riprovò anni dopo, con Futuro e libertà, confidando ai suoi che «fosse stato anche il suo ultimo atto, avrebbe liberato l’Italia dal Cavaliere». Come si sia conclusa la faccenda è noto: dopo poco, il leader di Forza Italia fu costretto alle dimissioni, ma a distanza di dieci anni Berlusconi resta un protagonista della politica italiana e del suo avversario le uniche tracce si ritrovano in tribunale.
Anche Bettino Craxi e Ciriaco De Mita, tuttavia, non si amavano. Costretti a un governo insieme, impiegavano le loro energie più a farsi la guerra che ad andare d’accordo. Il segretario della Dc era convinto che i socialisti fossero «un chiodo puntato su una parete che non c’interessa più» e da democristiano di sinistra avrebbe voluto appendere il suo quadro alla parete comunista. Diffidando l’uno dell’altro, firmarono però un patto che avrebbe dovuto consentire a Bettino di governare per un paio d’anni per poi lasciare il posto a Ciriaco. Ma il primo, di mollare non aveva alcuna intenzione e il tradimento, vero o presunto, segnò per sempre la storia di quel periodo. Tra i due rimase una diffidenza e un’ostilità che impedì a entrambi di capire che cosa stava accadendo e di prepararsi a reggere l’onda d’urto di Tangentopoli.
Se ricordo vecchie storie di un passato ormai lontano è perché, pensando all’odio fra Conte e Renzi, rifletto sulla situazione del Paese. I morti per Covid continuano a crescere e ormai non siamo molto distanti dai 100.000 decessi. Il Pil dell’Italia è in caduta libera e il debito pubblico ha raggiunto livelli impressionanti. Tuttavia, mentre la casa brucia, chi dovrebbe guidarci fuori dalla crisi sanitaria ed economica litiga. Questo numero di Panorama è dedicato alla svendita delle nostre aziende, partendo da quella che un tempo è stata la più importante negli anni del boom. La Fiat non era solo una grande azienda privata: era l’immagine stessa di un Paese lanciato verso lo sviluppo. Oggi, dopo una fusione con i francesi che di fatto è una vendita, che cosa resta all’Italia? Non certo l’industria automobilistica e nemmeno quella chimica o elettronica. Da tempo abbiamo perso il primato nella tecnologia e quel poco che rimane rischia di diventare preda di gruppi stranieri.
E i Renzi, i Conte, gli Zingaretti, i Grillo, nel frattempo che fanno? Litigano e si fanno gli sgambetti. È vero, la politica è fatta anche di rancori e le decisioni nascondono a volte risentimenti e antipatie profonde. Tuttavia, nonostante Fini e Berlusconi si detestassero, ciò non impedì al governo di liberare Napoli dai rifiuti e di intervenire dopo il terremoto in Abruzzo. Anche Craxi e De Mita diffidavano l’uno dell’altro, ma questo non evitò che l’allora presidente del Consiglio abolisse la scala mobile, bloccando così la spirale dell’inflazione. I grandi uomini politici, insomma, esistono e vanno avanti a prescindere dai risentimenti personali. I piccoli, invece, si nutrono solo del proprio ego.
