Con le sue brillanti intuizioni e un gusto per la sfida culturale, la gallerista milanese ha animato il panorama artistico italiano. Grazie a lei hanno trovato giusto riconoscimento figure quali Felice Casorati e Cagnaccio di San Pietro, Fausto Melotti e Adolfo Wildt.
Negli anni della mia formazione Milano era, come Parigi, un luogo inevitabile. Più che per i musei, per le gallerie d’arte. Nell’anno in cui vidi, credo il 1974, la più bella mostra d’arte contemporanea che io ricordi, La ricerca dell’identità, curata da Gianfranco Bruno a Palazzo Reale, il giro delle gallerie appariva essenziale per capire lo stato dell’arte.
La prima, la più solenne, grazie alla gloria di Giorgio Morandi, era Il Milione di Gino Ghiringhelli; seguivano, con pari autorevolezza, e con la casa madre a Venezia, la Galleria del Cavallino di Carlo Cardazzo, scaldata dalla esondante presenza di Milena Milani e dai suoi rapporti con i classici del Novecento. Un modulo analogo, con la sede originaria a Prato e le diramazioni a Milano e a Cortina, aveva la Galleria Farsetti. Sofisticata, per le proposte dalla Nuova oggettività tedesca al Realismo magico, la Galleria del Levante di Emilio Bertonati, di cui conservo un caro ricordo. Più contemporanea era l’offerta di Lorenzelli e dello Studio Marconi. Nuova, per le scelte originali di Giovanni Testori, la Compagnia del Disegno di Max Rabino e Alain Toubas. Philippe Daverio arriverà poco dopo, e con molto carattere, nel 1975.
La Galleria più patinata e ricca di maestri del Novecento, noti e meno noti, era quella di Ettore Gian Ferrari. Aveva inaugurato in pieno fascismo con la prima rassegna della donna italiana nel campo delle arti figurative, dimostrando ancora una particolare attenzione, piuttosto che a una singola tendenza artistica, all’organizzazione di mostre in cui le opere stabilissero collegamenti e moniti imprevisti.
Per Gian Ferrari furono sempre validi i principî dell’alta qualità del lavoro e dell’estraneità alle mode. Tentò talvolta la rivalutazione di maestri italiani indipendenti e isolati. Non mancò tuttavia di prestare attenzione al panorama internazionale , esponendo per primo le opere di Oscar Kokoschka e di Alfred Kubin. Fra i suoi artisti, Aldo Carpi, Raffaele De Grada, Pio Semeghini, Lorenzo Viani, Timo Bortolotti. Si ricordano, inoltre, le predilezioni per Fausto Pirandello, Roberto Melli, Giorgio de Chirico, Fritz Wotruba.
Dal 1965 si fece più netta la sua posizione contro i falsi nell’arte contemporanea. Clamoroso atto simbolico fu, nel 1969, il rogo dei falsi Sironi, messo in scena in un cortile in via della Spiga a Milano con regolare delega da parte dei parenti dell’artista. Ancor più nella vicenda dei falsi Martini il mercante affrontò difficili cause giudiziarie per incriminare i colpevoli e ottenere giustizia (penale e storica): la sentenza della Corte di cassazione nel 1980 riconobbe false le opere attribuite anche da Giulio Carlo Argan al maestro trevigiano.
Io lo conobbi, vivace e burbero, negli ultimi anni della sua vita, nel periodo in cui cresceva nella sua galleria la figlia Claudia che amministrava, senza avvertire il passaggio generazionale, l’eredità prima culturale che materiale del padre. Con emozione, insieme ai classici del Novecento vidi da lei, e con lei, gli artisti dimenticati di cui mi sarei poi appassionato: Carlo Sbisà, Mario Cecconi di Montececcon, Fausto Pirandello e soprattutto, con grande anticipo per il gusto dei tempi, Cagnaccio di San Pietro e Adolfo Wildt.
Ma, in generale, il suo interesse andava ai maestri che un’altra grande donna, Margherita Sarfatti, aveva proposto nel gruppo di Novecento: Piero Marussig (di cui il Mart sta per acquistare il disegno preparatorio per Autunno), Gian Emilio Malerba, Mario Sironi, Ubaldo Oppi, Achille Funi e, come per contrappasso, Arturo Martini (amatissima L’amante morta del 1921). Credo che sottotraccia lei sentisse, con la tradizione del padre, anche una continuità di interessi con la Sarfatti.
Grande era la sua curiosità. Il suo gusto, equamente diviso fra Novecento e arte contemporanea, si vede nelle donazioni di opere da lei collezionate, a margine dell’attività di gallerista, al Maxxi di Roma e soprattutto al Fai, disposte nella villa Necchi Campiglio di Milano. Il ponte fra classici e contemporanei (secondo una personale selezione, da Luigi Ontani a Claudio Parmeggiani, a Sandro Chia, a Rainer Fetting) prolungava nello spirito la singolare funzione del padre, titolare per decenni dell’ufficio vendite della Biennale di Venezia, attraverso il quale sono passati tutti i capolavori di arte italiana e straniera. All’istinto del padre aggiungeva la solidità della conoscenza storica e l’attitudine alla ricerca.
La sorella Grazia ricorda puntualmente che «l’affiancamento a nostro padre in galleria non fu indolore perché erano entrambi caratteri forti e determinati, tanto da spingere Claudia ad allontanarsi per andare a lavorare in Rizzoli. Ma, dopo un breve periodo, si riavvicinarono, e Claudia seppe guadagnarsi la fiducia e la stima di nostro padre arrivando ad avere un ruolo decisionale nelle scelte strategiche della galleria». Sulle due piste si è mossa con determinazione, affiancando la Galleria Gian Ferrari Contemporanea alla galleria storica, che ha tenuto viva fino al 1996, quando, perfezionando la sua natura anfibia di gallerista e studiosa, aprì uno studio di consulenza per il Novecento italiano, senza rinunciare allo spazio espositivo.
Era viva, intelligente, appassionata. Nei nostri incontri c’erano divertimento, stima e sfida; ma il suo obiettivo era prima conoscere che cercare un collezionista, che doveva essere comunque un alter ego, uno spirito affine. Credo, per esempio, che da lei l’architetto Mario Bellini abbia trovato il capolavoro di Cagnaccio di San Pietro Dopo l’orgia, uno dei classici del Novecento, in dialogo con il capitale Meriggio di Felice Casorati. Tutta la cultura di Valori plastici e di Novecento si concentra in questo quadro scandaloso del pittore la cui resurrezione dobbiamo (si parva licet) a Claudia, come dobbiamo quella di Caravaggio a Roberto Longhi. Per questo era fondamentale l’attitudine dello storico dell’arte. Allo stesso modo, in dialogo fertile con Paola Mola, Claudia restituì onore e grandezza ad Adolfo Wildt, e ne tenne per sé, perché fosse di tutti, il meraviglioso Puro folle. In entrambi i casi, il vertice dell’importanza storica coincide con il vertice del gusto, e i due capolavori di Cagnaccio e di Wildt sono a dimostrarlo. Infallibile Claudia.
Al centro della stanza dedicata dal Mart a Claudia, fra dipinti legati alle collezioni del museo, sono state esposte fantasiose e rutilanti ceramiche di essenza spirituale, come soffi o sospiri, di Fausto Melotti. Curata da Daniela Ferrari, la mostra ci parlato dell’eleganza e della sensibilità di Claudia, che ha lasciato al museo 26 opere in ceramica del grande scultore, perché, con Milano e Roma, anche Rovereto continuasse, attraverso gli artisti che ha amato, a sentirla presente e viva.