Una aspirante suicida salvata da un’altra donna (un carabiniere) che si avvicina a lei e si mette in ascolto. Spegnendo i brusii di fondo della vita e, come, accade nel luogo più essenziale, sentendo quello che conta davvero.
Siediti. E ascolta. Con calma. Concentrati su chi hai di fronte. Senza fretta. Senza ansia. Senza niente che ti appaia all’improvviso più importante. Più urgente. Senza niente che ti distolga. Per una volta. Non correre. Non scappare. Non distrarti. Non pensare ad altro. Ne vale la pena: siediti. E resta seduto. Ancora. Ancora un po’. Resta seduto e ascolta. Solo quello: ascolta. E poi ascolta. E ancora ascolta. Anche per quattro ore se è necessario. Non ti fermare. Continua a guardare l’altra persona negli occhi. Non il tuo telefonino. Non il WhatsApp che arriva. Non la mail da leggere o da inviare. Dimentica gli appuntamenti. Gli impegni. Il «vocale» appena ricevuto. E quello da mandare. Dedica tutto te stesso ad una sola persona. Falla sentire importante. Degna di essere osservata. Guardata. Considerata. Perciò siediti. E ascoltala.
Lo so che è una storia minore, di quelle che non conquistano i talk show della sera, non aprono il dibattito sulle grandi reti pubbliche nazionali, non scatenano risse né polemiche. Ma da queste parti, lo sapete, si pensa che la vita vera scorra qui, dentro queste strade di provincia, lontane dai riflettori e vicino alla semplicità. Magari sopra un fiume, persino sopra un ponte tibetano, persino a Perarolo di Cadore, fra le montagne di Belluno. E poi a scegliere quest’argomento mi ha spinto Mauro, il nume tutelare di questa rubrica, che è rimasto colpito dalla stessa immagine che ha colpito il Grillo. Un’immagine che chi ha visto non riesce a dimenticare. Si vedono un ponte e due donne. Una donna disperata che si vuole buttare giù. E una donna carabiniere seduta accanto, che le parla, la rassicura, la tranquillizza, la convince. E dopo quattro ore la salva.
La storia a lieto fine ha commosso per un attimo e poi è volata via dalle pagine di cronaca dei giornali e dai siti web, cancellata da fatti a tinte assai più forti. In fondo che c’è da aggiungere? È un fatto così semplice, si racconta e basta, non c’è da far nessuna polemica, nessuna riflessione.
Maria Pigliapoco è la carabiniera meritevole di segnalazione per aver dimostrato di essere il contrario del suo cognome (ci piglia, eccome). Mentre della donna si sa soltanto che ha grandi problemi economici, un marito, tre figli. Aveva già le gambe penzoloni su uno strapiombo di 80 metri. Poi ha accettato di parlare con quella donna in divisa. Solo con lei. Se qualcuno altro si avvicinava, niente: minacciava di buttarsi. Se qualcun altro provava a parlarle, niente: rispondeva. Ma con la carabiniera Maria ha accettato di parlare. Perché la carabiniera Maria si è seduta. Ed ha ascoltato.
E allora pensavo a quante volte probabilmente, nei giorni e nelle settimane e nei mesi precedenti, quella mamma disperata avrà cercato qualcuno che l’ascoltasse. Senza mai trovarlo. Quante volte le persone le saranno passate di fianco di corsa, di fretta, troppe indaffarate per starla a sentire. Anche solo per sorriderle. O salutarla. Figurarsi per sedersi accanto a lei. Magari c’eravamo anche noi. Chissà quante persone di quelle che incontriamo ogni giorno sono disperate, forse non al punto di buttarsi da un ponte tibetano, ma abbastanza da aver bisogno di qualcuno che le ascolti. E chissà quante volte siamo corsi via perché avevamo fretta, dovevamo andare, il prossimo impegno, la mail da mandare, l’invito cui rispondere. È urgente. Non possiamo fare a meno di.
Non possiamo fare a meno di che cosa? Quella immagine di due donne che stanno parlando nella sua semplicità riportata all’essenziale ci dice che non possiamo fare a meno soltanto di una cosa: di sederci. E ascoltare. Di qualcuno che si sieda. Di qualcuno che ci ascolti. Per quattro ore. Quand’è l’ultima volta che abbiamo ascoltato qualcuno quattro ore? Quand’ero ragazzino e andavo ai campi scuola della parrocchia, in mezzo ai cinque giorni pieni di discussioni, canti, giochi, urla, schiamazzi, c’era sempre un pomeriggio che chiamavano «il deserto». Vietato parlare. Solo silenzio. E ascolto. Ecco: penso che in mezzo alla nostra vita che è sempre più un concentrato esplosivo di messaggi, parole, musiche, suoni, contatti rapidi, video virali e frenesie social, avremmo bisogno di un po’ di sano deserto. Avremmo bisogno di sederci e di ascoltare. Perché solo così, come ci insegna quella immagine di Perarolo, si possono aiutare davvero le altre persone. Ma anche perché solo così possiamo aiutare davvero noi stessi. n
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