Il due pezzi compie 75 anni. Agli inizi nessuna modella volle indossarlo. Il suo inventore dovette ricorrere a una spogliarellista del Casino de Paris. Le prime dive italiane a scoprirsi furono Rossana Podestà e Gina Lollobrigida. Ma fu grazie a Brigitte Bardot e Ursula Andress che venne sdoganato definitivamente. In spiaggia e al cinema.
A tutta prima, sembrò una provocazione a cavallo fra il costume e la politica. Immaginare che le donne scendessero in spiaggia con la pancia scoperta, mostrando l’ombelico, significava sfidare il comune senso del pudore. E che quel costumino, ridotto ai minimi termini, venisse indicato con il nome dell’atollo Bikini (nell’arcipelago delle Marshall) dove gli americani stavano testando alcuni ordigni nucleari, sembrava una contestazione esplicita agli atteggiamenti militaristi degli Stati Uniti.
In realtà, quando nel luglio 1946 (75 anni fa) a Parigi venne presentata la sua collezione per l’estate al mare, Louis Réard voleva esplicitamente proporre un modello «esplosivo», ma non intendeva né mettere in discussione la leadership americana in fatto di strategia bellica né stravolgere le disposizioni che – applicando la legge – la «buoncostume» imponeva di rispettare. Lo stilista aveva semplicemente notato che, sulle spiagge francesi, le bagnanti si arrotolavano il costume sul petto e sulle cosce per esporre qualche millimetro di pelle in più ai raggi del sole e acquistare un’abbronzatura migliore. Ma se il mondo femminile trovava i costumi «a un pezzo» eccessivamente ingombranti, perché non assecondarlo con il dimezzare del tutto la stoffa da portarsi addosso in spiaggia?
I mesi immediatamente successivi alla fine del secondo conflitto mondiale incoraggiavano qualche azzardo. Per proteggersi dai bombardamenti, la gente era rimasta rintanata nei bunker per anni e si era adattata a rammendarsi gli abiti perché o non c’erano soldi per comprarne dei nuovi o non c’era stoffa da vendere. Il senso della libertà fisica riacquistata invitava alla trasgressione ma, forse, quella proposta da Réard aveva il difetto di anticipare eccessivamente i tempi. Troppo. Al punto che nessuna indossatrice di professione accettò di sfilare, indossando soltanto quei due pezzetti di stoffa che coprivano giusto ciò che non poteva essere lasciato scoperto. Per presentare il bikini fu necessario rivolgersi a Micheline Bernardini che non faceva parte del mondo della moda ma si esibiva come spogliarellista al Casinò de Paris.
Curioso che la proposta di Réard, in apparenza così trasgressivamente innovativa, non fosse nemmeno una novità. Qualche mese prima di lui, un altro stilista francese – Jacques Heim – sulle passerelle della moda aveva presentato un costume che già ritagliava abbondantemente i contorni dei costumi da bagno femminili utilizzati fino a quel momento. Non proprio un due pezzi, ma quasi.
E ancora prima – almeno 2.000 anni – era stato indossato dalle antiche romane. I mosaici di piazza Armerina ne sono una testimonianza inequivoca. Alcune ragazze (probabilmente su una spiaggia) giocano, si rincorrono e si lanciano una palla con indosso solo due striscioline di stoffa. Il fatto che siano diventate un soggetto per arredare pavimenti e pareti di una casa patrizia significa che quel comportamento e quell’abbigliamento erano ampiamente consentiti e accettati.
Quelli di piazza Armerina sono i lavori più famosi, ma non i più lontano nel tempo. Alcuni affreschi e almeno due urne funerarie ripropongono scene analoghe, quanto a datazione persino più antiche. Comunque, a dispetto di precedenti illustri certificati dalle civiltà precedenti, il debutto del bikini risultò sgradito e, in modo abbastanza generalizzato, osteggiato dalle autorità.
Da poche settimane, l’Italia aveva chiuso i conti con la monarchia e, al Quirinale, al posto di un Savoia, sedeva Enrico De Nicola. Il campionato di calcio, tanto era complicato spostarsi da una città all’altra, venne disputato in due gironi – Nord e Centro-Sud – con una sfida finale fra le prime classificate che portò lo scudetto al Torino. La Francia si riconosceva in Charles De Gaulle che pensava a una «quarta repubblica». L’Inghilterra aveva appena accettato l’indipendenza della Giordania. Gli Usa si erano affidati al governo di Harry Truman. Troppa distanza fra vertici istituzionali e spinte innovative.
Il bikini fu messo all’indice e impiegò una decina d’anni per essere sdoganato. Nel 1950 Fred Cole, titolare di una catena di aziende che producevano costumi da bagno tradizionali, per difendere le sue produzioni criticò il bikini. Lo presero sul serio. Gli organizzatori del concorso di Miss Mondo proibirono alle concorrenti di indossarlo.
In Italia, nonostante qualche rara apparizione in bikini di Silvana Pampanini, Rossana Podestà e Gina Lollobrigida, la pancia (e l’ombelico) in spiaggia andavano coperti. In qualche caso, vigili urbani e poliziotti, su indicazione dell’allora ministro degli Interni Mario Scelba, tenevano a portata di mano un centimetro per verificare se le misure dei costumi fossero «regolari». Sembrò che la tradizione l’avesse vinta.
Per trasformarlo in oggetto di largo consumo ci vollero le foto di Brigitte Bardot sulla sabbia di Cannes e, un po’ dopo, il film Piace a troppi, sempre con l’attrice protagonista. In termini di pubblicità e di propaganda fece la sua parte la canzone di Brian Hyland che usava il bikini per chiudere il tempo di una rima. «Teenie Weennie, Yellow Polka, Dot Bikini». Decisiva fu, infine, Ursula Andress che nel film con lo 007 James Bond uscì dall’acqua come una Venere, armata di pugnale e di avvenenza.
Adesso il bikini è persino abbondante. Le ragazze tolgono la parte sopra e riducono a qualche filo quella sotto. Non è un abbigliamento riservato alle magrissime. L’industria della moda ha cominciato a pensare a un mercato allargato e a un corpo non perfetto. Sulla spiaggia c’è spazio per tutte le taglie. Strumento supremo di seduzione indosso alle bellissime, è diventato una specie di divisa per chiunque: ragazze, mamme e nonne lo indossano a costo di strizzarsi all’inverosimile pur di entrarci dentro.
Sdoganato e senza quell’aura trasgressiva, ha rafforzato la sua valenza di praticità. Ha la meglio su tutto quel che è possibile vedere in spiaggia anche oggi. La sua rilevanza – in termini sociali – è tale che, addirittura, c’è chi sostiene che sarebbe un termometro dell’economia e – contemporaneamente – l’indicatore dell’umore di un Paese.
Nel senso che, più cala l’ottimismo, più aumentano le dimensioni del bikini. Negli anni Sessanta, con il Pil in crescita, si usavano – in media – 270 centimetri quadrati di stoffa. Negli anni Ottanta i centimetri si sono ridotti a 200. Nel 2009 – con l’economia in picchiata – si è tornati indietro, preferendo modelli più «retrò», con 290 centimetri quadrati.
L’anno scorso, in piena pandemia, le spiagge sono state solo moderatamente frequentate. I costumi da bagno erano quelli dell’anno precedente. Infatti l’economia del 2020 è andata a picco. Ma l’evoluzione che porta a un bikini «string», per dimezzarlo in un «monokini» e ridurne ulteriormente la dimensione in un «tanga» dovrebbero incoraggiare all’ottimismo. Anche in campo economico.
