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Arte: cosa c’è dietro a quel Caravaggio a Madrid

Arte: cosa c’è dietro a quel Caravaggio a Madrid

La scoperta fortuita e la mano del grande pittore subito riconosciuta dal critico di Panorama. Ma poi c’è stato un incrocio di interessi e contromosse con cui il dipinto è diventato proprietà della Spagna e non è rientrato in Italia.


Vi divertirà questa storia di ingenui, sognatori, conoscitori, profittatori, delusi, illusi, intorno a un quadro, l’Ecce Homo di Caravaggio, di cui si è molto parlato negli ultimi tre anni. La storia non è come ve la raccontano: è un po’ più tortuosa, e anche sorprendente. D’altra parte è già raccontata tutta, senza alcuni particolari coloriti, in un mio libro che non si può bruciare, forse tentare di nascondere, pubblicato non ora, ma tre anni fa: Ecce Caravaggio. Da Longhi a oggi 1951-2021, con apparati e contributi di Giacomo Berra, Michele Cuppone, Francesca Curti, Sara Magister, Barbara Savina: il primo e vero catalogo dell’opera scoperta e pubblicata l’8 aprile del 2021, e ora, dopo un giudizioso restauro, esposta al Prado. Come andò dunque?

Il primo avvertimento dell’interesse del dipinto è, tra Lavello e Barcellona, il 17 marzo del 2021, quando lo vede nel catalogo di una piccola casa d’aste di Madrid, dove ne è pubblicata una piccola fotografia di pochi centimetri, con un riferimento a scuola italiana del XVII secolo, Antonello Di Pinto. È un prorompente pittore italiano, appassionato di arte antica, vive tra Italia e Spagna e, da molti anni commercia quadri prevalentemente napoletani. Ha incrociato Mattia Preti Luca Giordano, Massimo Stanzione, Francesco De Mura, Gaspare Traversi, Ludovico Mazzanti. È comprensibilmente emozionato quando, il 23 marzo, mi invia la fotografia per WhatsApp con un messaggio preciso: «Buongiorno Prof, ho intercettato questo dipinto, ho un magnate dell’antiquariato che preme per l’acquisto a cifre significative, sto cercando di capire perché. Io avrei individuato un giovane Mattia Preti o altro pittore romano intorno al 1630, ma io sono io e tu sei la massima autorità in questo campo. Mi dici spassionatamente che ne pensi? Nel caso il magnate lo acquistasse saresti disposto a un expertise? Ovviamente sempre che il nome del pittore valga l’expertise di Sgarbi… Tuo discepolo Antonello Di Pinto». Così inizia l’avventurosa storia.

Chiamo Di Pinto. Gli dico, avvertendo dall’altra parte stupore e silenzio: «Ma è Caravaggio!». Antonello è euforico, e forse incredulo, ma non gli dico e non gli chiedo altro. Anch’io sono comprensibilmente eccitato, ma non voglio disturbare le trattative e l’eventuale acquisto del magnate, e quindi contrastare le legittime intenzioni di Di Pinto. Sono le 12,30, e incarico il mio assistente, Pietro di Natale, di verificare se e in quale asta il dipinto possa essere proposto. Pista giusta. Alle 14,30 ho la risposta: Ansorena, Madrid, valutazione 1.500 euro, in vendita l’8 aprile. Da quel momento non parlo con nessuno, come è giusto in casi come questi, e decido di partecipare all’asta, pronto ad arrivare anche a una cifra alta pur di far rientrare il dipinto in Italia. Mentre il Di Pinto, che oggi soffre di non veder riconosciuta la sua «scoperta», ha fatto un passo falso. L’opera ha una tale forza che il magnate è già sulla mia stessa pista, si agita e ha coinvolto uno storico dell’arte, e anche lui pittore, Massimo Pulini che lo indirizza sul concorso per un Ecce Homo commissionato da Massimo Massimi ai pittori Ludovico Cardi detto il Cigoli, Domenico Cresti detto il Passignano, e il Caravaggio. I documenti sono conservati in palazzo Massimo, dove io, singolare coincidenza, ho lungamente vissuto. Siamo tra 1605 e 1606, e l’opera potrebbe essere stata dipinta dopo l’omicidio di Ranuccio Tommasoni e la fuga di Caravaggio nel feudo dei Colonna a Paliano, nello stesso tempo della Cena in Emmaus, ora a Brera. Evidenti sono anche le affinità con la Flagellazione per la chiesa di San Domenico a Napoli, dipinta, sempre in fuga, nel 1607.

Intanto, io avrei saputo (dopo) che Di Pinto si era rivolto anche a un altro illustre critico, scettico, Nicola Spinosa, che lo orienta verso la bottega dello spagnolo Jusepe de Ribera o di Mattia Preti giovane. In quei giorni deve essere accaduto di tutto. Più eccitato di Di Pinto, il magnate corre a Madrid, e tenta di acquistare il dipinto con un’offerta consistente fuori asta, mentre il figlio ammicca con un selfie nella sala di esposizione. Si muovono antiquari di rinomata esperienza come Fabrizio Moretti e Marco Voena, i quali si fanno accompagnare a Madrid da una giovane e ambiziosa studiosa di Caravaggio, Maria Cristina Terzaghi. Insomma, un gran subbuglio. Così il 7 aprile mi arriva un’altra telefonata assai sconcertata di Di Pinto: l’opera è stata ritirata dall’asta. Troppo rumore, troppa agitazione, troppo danaro e la legittima preoccupazione dei proprietari ai quali era stata fatta una valutazione così modesta (non è peraltro inconsueto accada, ma questa volta la sproporzione e la sottovalutazione sono troppo grosse), si muove anche lo Stato spagnolo che impone, come accade spesso in Italia, un vincolo per rendere l’opera inesportabile. La mia reazione immediata è di dispetto, ma non di rassegnazione. Sfumata l’opportunità di riportare il dipinto in Italia, non ho più ragioni di tacere e scrivo il giorno stesso il primo articolo sull’opera ritrovata come Caravaggio, su un quotidiano, l’8 aprile cioè il giorno dell’asta mancata. In quelle tre settimane si era mosso il mondo, e avevo avuto non solo la certezza dell’importanza dell’opera, ma anche che, fra antiquari, collezionisti e storici dell’arte, la convinzione fosse diffusa e condivisa. Il giorno dopo, infatti, escono su altri giornali articoli di Pulini e la Terzaghi, e, di lì a poco, su un giornale inglese, David Jaffe, al quale telefono.

L’attribuzione si fortifica e si consolida, e il ritiro dall’asta ne è l’indiretta conferma. Tale è la mia convinzione che chiamo La nave di Teseo, la casa editrice che sta ripubblicando il mio libro, uscito da Bompiani, Caravaggio. Il punto di vista del cavallo, e annuncio un’importane integrazione, che diventerà un volume autonomo, per rendere nota la scoperta. In quel libro, insieme a riflessioni che non sono mutate nel corso degli approfondimenti di questi tre anni e del paziente restauro di Andrea Cipriani, c’è tutto, e appare effettivamente imbarazzante che tra i presentatori e i curatori del catalogo al Prado io sia escluso, pur avendo ricevuto dall’ ultimo intermediatore del dipinto, alla fine venduto a un collezionista inglese per la contenuta cifra di 36 milioni di euro, la richiesta di raccontarne la storia della scoperta per un film, The Sleeper, di Alvaro Longoria. Una damnatio memoriae contraddetta dalla esistenza del libro uscito alla fine di giugno del 2021. Ogni stagione ha il suo Caravaggio. Questa è la più propizia, perché l’apparizione dell’Ecce Homo a Madrid è stata accompagnata da un coro di consensi senza precedenti per un’opera apparsa dal nulla. Non capitava da tempo che un dipinto mettesse d’accordo gli studiosi, imponendosi con un’evidenza inequivocabile, e questo ci fa riflettere a ciò che resta, allo stato degli studi, delle scoperte di opere di Caravaggio dopo la mostra curata da Roberto Longhi in Palazzo Reale di Milano nel 1951.

In quella occasione, con i grandi capolavori provenienti senza alcuna difficoltà da Roma, da Napoli, dalla Sicilia, vi erano anche opere spurie che il tempo si è incaricato di espungere come oggi tocca all’Ecce Homo di Genova. Emerge come la più importante apparizione la Giuditta e Oloferne rinvenuta in casa Coppi da Pico Cellini, proveniente dalla Collezione genovese di Ottavio Costa. Una delle scoperte capitali, e così vivo e vibrante da vanificare la recente versione rinvenuta in Francia, attribuita da Nicola Spinosa e pompata da Keith Christiansen, anch’essa più caricaturale che naturale nel volto forzatamente rugoso dell’ancella. Possiamo dunque dire che, dalla grande mostra di Longhi, ogni studioso sia lentamente venuto aggiornando e integrando il catalogo di Caravaggio con molte proposte caduche e alcune (rare) convincenti. Al contrario di una delle opere più straordinarie, entrata subito nel catalogo di Caravaggio, dopo una serie di colpi di scena, fino all’approdo definitivo: si tratta della Negazione di Pietro, proveniente dalla stessa collezione Arditi di Castelvetere dove Longhi la classificò come opera di Battistello Caracciolo, in perfetta malafede. Uscita l’opera dalla casa, sulla metà degli anni Sessanta, diventò, approdata al sicuro in Svizzera, un’opera tarda (e certa) di Caravaggio. Come nel caso dell’Ecce Homo di Madrid, anche la Negazione, non appena di dominio pubblico, si è imposta tra i capolavori ritrovati di Caravaggio. Il grande inganno di Longhi, dopo che il dipinto era approdato in Svizzera, si è definitivamente rivelato con l’acquisizione (per donazione) al Metropolitan di New York senza che l’Italia abbia mai rivendicato, nonostante denunce e prove, l’appartenenza del dipinto illecitamente esportato.

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