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Affogati nella burocrazia

Affogati nella burocrazia

L’editoriale del direttore, in risposta alla lettera di un lettore.

Gentile direttore,

ho letto con assoluta condivisione il suo editoriale sul n. 15 di Panorama sulla produzione delle mascherine. Chiariamo subito che sono, o meglio sono stato, un burocrate e mi accingo a un compito quasi impossibile: difendere la mia ex categoria. Vede, direttore, il pensare che la burocrazia abbia il gusto della complicazione o dell’ostacolo alla formazione di un provvedimento potrebbe essere anche lecito ma cozza, inevitabilmente, contro un principio umano, quello dell’impegno. Intendo dire che tale comportamento impone un’attività, mentre l’omesso controllo limita o addirittura esclude il fare. Dunque, non fosse altro che per il principio della fuga dinanzi allo sforzo – principio largamente condiviso non solo nella burocrazia – il burocrate, tranne casi sporadici di patologica egostima o incurabile cattiveria, non ha alcun interesse per l’esercizio così tortuoso della propria attività. La verità, dunque, sta invece, ma mi posso sbagliare, nella mancanza di fiducia che il potere legislativo mostra nei confronti di quella parte dell’esecutivo che materialmente svolge le funzioni, emette i provvedimenti, «sbriga le pratiche» come si dice. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: le finalità positive spesso non si ottengono, mentre quelle negative sono una costante. Ma la burocrazia, che pure ha le sue colpe in quanto tale, sconta quelle ben più gravi di una classe politica mediocre nel risolvere i problemi di tutti quanto efficace nel risolvere i propri.

Nino Di Carlo


Caro Di Carlo,

temo di essere stato frainteso. Probabilmente non sono riuscito a spiegarmi o forse, più semplicemente, sono stato troppo tranchant. Tuttavia, quando ho scritto l’editoriale sulla burocrazia che blocca l’acquisto o la produzione delle mascherine contro il coronavirus, non intendevo certo assolvere la politica. È evidente che se c’è un funzionario che complica le cose, che scrive norme incomprensibili o, peggio, poi le interpreta malamente, esiste sempre un livello superiore, quello di chi per mandato ha il dovere di fare le leggi e di farle funzionare.

Se per scrivere un decreto che si chiama Cura Italia sono state necessarie settimane e poi è stato prodotto un testo di 72 pagine, la colpa non può essere del solo burocrate. Sotto a un testo che comincia scrivendo Visti i tali articoli, Visto il tal decreto, Ritenuta la straordinaria necessità, c’è la firma del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il quale ha vidimato il provvedimento che gli è stato sottoposto dal presidente del Consiglio e dal ministro dell’Economia. Dunque, se a leggere i 127 articoli c’è da perderci la testa significa che non è tutta colpa del dirigente del ministero, ma la più importante responsabilità la porta chi ha sottoposto al capo dello Stato un documento incomprensibile.

C’era proprio bisogno di scrivere un articolo per la continuità delle funzioni dell’autorità garante delle comunicazioni e un altro per garantire la funzionalità del Garante della privacy? Le persone morivano in ospedale perché nelle corsie mancavano i posti di terapia intensiva e i medici si ammalavano e rischiavano la vita perché nessuno si era premurato di comprare i dispositivi di protezione, cioè mascherine, occhiali, guanti e gel disinfettante, ma a Palazzo Chigi si preoccupavano di garantire le funzioni del Garante della privacy.

Intendiamoci, non voglio sottovalutare l’importanza dell’ufficio che vigila sulla riservatezza dei nostri dati personali. Né ho intenzione di sminuire il ruolo dei guardiani dell’informazione che tutelano il diritto costituzionale della libertà di stampa. Però, davanti a un’emergenza, ci sono delle priorità e dunque il rimborso dei biglietti per spettacoli e musei magari può aspettare.

Invece no. Al governo hanno scritto un decreto omnibus, con l’intenzione di occuparsi di tutto lo scibile umano e di tutti gli aspetti della vita quotidiana, con il risultato che il decreto che dovrebbe curare il Paese rischia di farlo ammalare ancora di più. Più che un provvedimento urgente, come avrebbe dovuto essere un decreto del presidente del Consiglio dei ministri, il Cura Italia è diventato una specie di Mille proroghe, ossia un provvedimento dove ognuno ha infilato ciò che è riuscito. Norme per finanziare Alitalia, commi per i lavori di ripristino del servizio elettrico, clausole a favore dei patronati e indennità per i lavoratori dello spettacolo: in pratica un’enciclopedia di buone intenzioni. Che poi dietro a quella grandinata di articoli non ci fossero i soldi per aiutare tutti e a distanza di oltre un mese pochi italiani abbiano visto le misure che avrebbero dovuto curarli, beh, diciamo che questo per la politica è un dettaglio.

No, caro Di Carlo, parlando della burocrazia, dei suoi contorcimenti linguistici, delle palesi assurdità di certi moduli che vengono sottoposti al cittadino e dell’incongruenza di misure che si dicono urgenti, ma per essere applicate richiedono mesi, non intendevo certo gettare la croce addosso solo agli impiegati dei ministeri. So benissimo che oltre a una certa attitudine dei nostri funzionari a scrivere le leggi in maniera un po’ pomposa e criptica, con rimandi ad articoli e disposizioni del passato, c’è la responsabilità della politica, che in una certa complicazione del diritto si crogiola.

Se le cose fossero facili gli italiani ne trarrebbero vantaggio, ma ad averne un danno enorme sarebbe certamente la politica, che dell’inaccessibilità per il comune cittadino alle tavole della legge trova la sua legittimazione e il suo potere. Quando bussare alla porta di un ufficio pubblico e trovare una risposta ai propri problemi non è cosa consentita ai comuni mortali, serve un intermediario.

Nel migliore dei casi la complicazione burocratica si risolve con una raccomandazione, non di rado sfocia nella corruzione. Carlo Nordio, che per anni ha inseguito i ladri, spiega sempre che le tangenti non si fermano con nuove leggi, ma semplificando quelle vecchie. Se per ottenere qualche cosa devi bussare a 10 porte, c’è sempre il rischio che una resti chiusa e per ottenere che si apra c’è chi si rassegna a oliare i cardini. Insomma, caro Di Carlo, non so se ci siamo capiti: che l’Italia affoghi nella burocrazia non è un caso.

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