Non esiste solo la Terra dei fuochi in Campania. Sono centinaia i sequestri da parte delle forze dell’ordine di container e capannoni stipati di rifiuti speciali. Affari che fanno gola anche a una mafia emergente, che spedisce questi materiali pericolosi in Asia.
Una tonnellata di scarti tessili ammassati in un vecchio Fiat Ducato che, nonostante il coprifuoco, attraversava nella notte di domenica 25 aprile la periferia di Pistoia. Il conducente, un cinese di 47 anni, quando ha visto la polizia che gli mostrava la paletta ha bloccato il furgone a bordo strada, è sceso e ha cercato inutilmente di fuggire attraversando il giardinetto di un’abitazione. Sul mezzo – pietrificato – era rimasto un nigeriano di 30 anni. I due non sono riusciti a spiegare dove fosse diretto il loro carico. Ma alla Procura di Firenze sospettano che quello non sia l’unico mezzo da svuotare in un container fermo nel piazzale di qualche fabbrica dismessa per la crisi pandemica e comprato a quattro soldi da chi di liquidità ne ha tanta: la mafia cinese.
Nei depositi dei sequestri giudiziari questi container si contano a centinaia. Su bolle d’accompagnamento e documentazione d’imbarco il luogo di destinazione indicato è quasi sempre lo stesso: Repubblica popolare cinese. E cinesi sono pure i mittenti dall’Italia. O, comunque, lo sono gli intermediari. Con un semplice ma spregiudicato trucco la mafia che parla il mandarino è stata capace di trasformare l’immondizia in oro: è bastato classificare i rifiuti speciali con un altro codice per trasformarli in «materia prima secondaria», ovvero in scarti da riciclare. E quando non conveniva spedirli, finivano nelle discariche insieme ai rifiuti solidi urbani.
L’epicentro del fenomeno è in Toscana, ma le Procure antimafia se ne stanno occupando a macchia di leopardo in mezza Italia. Partendo da Prato, si è scoperto un pericoloso intreccio con ambienti sospettati di camorra. Un gruppo criminale aveva messo su un redditizio traffico di rifiuti classificati fittiziamente come «imballaggi di materiali misti». Arrivavano in Toscana da Napoli, grazie a un autotrasportatore che aveva i contatti giusti. E una volta attestato, grazie a una semplice dichiarazione, che si trattava di scarti di un’attività di recupero di rifiuti, si potevano «smaltire» tra la spazzatura prodotta dai cittadini.
Gli investigatori ritengono che «trasgredendo alle normative di settore ed eludendo il fisco», gli illeciti profitti sarebbero arrivati a circa 2 milioni di euro. A Firenze, invece, alcune imprese del settore tessile i propri rifiuti di lavorazione li facevano «conferire», di notte, direttamente nei cassonetti del servizio pubblico di raccolta urbana. In altri casi, tramite spedizioni transfrontaliere, venivano mandati in Togo o in Sudafrica. Dalle indagini è emerso che i due contrabbandieri erano di nazionalità cinese. Avevano dichiarato di raccogliere «rimasugli di tessuto in diversi colori». Ma gli investigatori hanno scoperto che si trattava di «rifiuti speciali frammisti a carta e plastica». In un anno avrebbero smaltito 1.700 tonnellate di scarti, per un profitto netto intorno ai 200 mila euro.
La stessa attività, pensano i magistrati, era stata organizzata in Campania, nei comuni della Terra dei fuochi, nell’area tra Napoli e Caserta. Con una telecamera nascosta davanti a un cassonetto piazzato in una via di Poggiomarino, provincia di Napoli, è stato scoperto che un uomo aveva smaltito illecitamente vari sacchi di plastica che contenevano scarti tessili. Da questo singolo episodio, l’indagine si è sviluppata verso i laboratori abusivi («aziende fantasma» le hanno definite gli investigatori) tra Poggiomarino, San Giuseppe Vesuviano, Terzigno, Ottaviano e Sarno, i cui gestori facevamo ricorso sistematico ai fattorini che smaltivano ogni notte tonnellate i rifiuti nei vari cassonetti comunali. «Grazie alla verifica incrociata nei competenti uffici» ha spiegato il procuratore della Repubblica di Torre Annunziata, Nunzio Fragliasso, «nonché con la società fornitrice di energia elettrica, è emerso che i laboratori tessili erano totalmente abusivi, perché funzionavano in edifici a uso abitativo e privi delle necessarie autorizzazioni amministrative per l’esercizio dell’attività».
Se per le piccole quantità era comodo colmare con scarti di lavorazione i cassonetti della spazzatura, da Bari partivano le tonnellate. I rifiuti provenienti dall’attività industriale della Natuzzi, produttrice di salotti, erano spediti verso la Repubblica popolare cinese. Per la Procura l’attività era finalizzata a conseguire «l’ingiusto profitto, anche in termini di risparmio di spesa, derivante dalla commercializzazione dei rifiuti come sottoprodotti».
Nel corso dell’indagine, per la quale è ancora in corso un’attività di cooperazione internazionale in cui è coinvolta l’agenzia europea per la cooperazione giudiziaria Eurojust, si è cercato di accertare quante altre esportazioni fossero avvenute in precedenza. «Gli elementi acquisiti» spiega il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho, «hanno messo in luce modalità operative consolidate negli anni e che avevano permesso anche ad altri imprenditori italiani nel settore della produzione di divani di poter contare sulla disponibilità di imprese cinesi a ricevere rifiuti come sottoprodotti».
Il business, dunque, si è allargato. E l’inchiesta ha preso il nome di Leather scraps, «scarti di pelle». La Procura antimafia di Bari, per la particolare difficoltà del caso in esame, ha dovuto affiancare al gruppo investigativo della Guardia di finanza anche il nucleo di polizia economico finanziaria, ipotizzando responsabilità anche degli enti coinvolti nelle verifiche. Le indagini, insomma, si spostano all’estero. «I gruppi criminali che gestiscono il settore dei rifiuti», valuta il procuratore Cafiero de Raho, «appaiono sempre più interessati a spostare la gestione dei residui di lavorazione verso Paesi che, per via di normative più permissive, di politiche legislative più flessibili a tutela dell’ambiente, di misure inadeguate di contrasto e di controllo, consentono di operare con minori rischi. E, al contempo, di conseguire maggiori profitti risparmiando sullo smaltimento che ha prezzi inferiori rispetto a quelli praticati sul territorio nazionale». Così è cominciata la caccia alle «zone franche».