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Indagini, giustizia ed informazione, un sistema che sta andando in tilt

Indagini, giustizia ed informazione, un sistema che sta andando in tilt

Il caso-Santanchè ha fatto riemergere le storiche problematiche che incidono sul delicato rapporto tra indagini preliminari e potere dei media. L’opinione del Prof Dinacci

Il ciclone mediatico-giudiziario che si è abbattuto sul ministro del turismo Daniela Santanchè era balzato alle cronache già lo scorso novembre, quando era stata divulgata la notizia di indagini a suo carico per falso in bilancio nelle comunicazioni 2016-2020 di Visibilia Editore spa. Era emersa un’annotazione del settembre precedente secondo cui il Gruppo Tutela Mercati della Guardia di Finanza di Milano esplicitava “la sussistenza del reato di false comunicazioni sociali”. Il ministro, per difendersi, aveva provato a smentire la notizia ricorrendo all’art. 335 del Codice di procedura penale (registro delle notizie di reato), ovvero alla c.d. certificazione della Procura rilasciata su istanza dell’interessato attestante l’iscrizione, a proprio carico, di procedimenti penali in corso: e in quel caso la certificazione richiesta aveva dato esito negativo. Ma come era stato possibile? Tecnicamente è possibile che la stessa Procura avesse fatto ricorso al c. 3 bis della norma citata, che afferma che “(…) Se sussistono specifiche esigenze attinenti all’attività di indagine, il pubblico ministero, nel decidere sulla richiesta, può disporre, con decreto motivato, il segreto sulle iscrizioni per un periodo non superiore a tre mesi e non rinnovabile (…)”. In pratica la Procura di Milano, trovandosi innanzi a indagini complesse, potrebbe aver ritardato, per un massimo di 3 mesi, la comunicazione agli avvocati della Santanchè dell’iscrizione del procedimento penale. Il ministro, insomma, era formalmente indagato ma non lo sapeva ne avrebbe potuto (e dovuto…) saperlo. Intanto i suoi legali avevano, in quei mesi, interloquito con la Procura, intuendo, informalmente, che la propria assistita fosse effettivamente indagata per falso in bilancio e concorso in bancarotta: in più non avevano più richiesto il rilascio della certificazione ex art. 335 c.p.p. e così avevano potuto continuare ad affermare che la propria assistita non avesse avuto comunicazione formale di un’indagine a proprio carico. Forse sarà andata così, ma il resto lo hanno compiuto i media in questi ultimi giorni, come sempre…

Panorama.it ha rivolto alcune domande al professore Filippo Dinacci, ordinario di diritto processuale penale nell’Università Luiss di Roma, sul delicato e complesso meccanismo esistente in materia di indagini preliminari e conoscenza da parte dell’indagato.

Professore, innanzitutto facciamo chiarezza. Può una persona essere indagata senza sapere di esserlo?

«Certamente si ed è questa una forte criticità dell’impianto codicistico che non risulta allineato agli obblighi costituzionali e convenzionali laddove impongono che l’accusato debba, nel più breve tempo possibile, essere informato riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa».

Se non erriamo le indagini preliminari si caratterizzano per l’assoluta segretezza…

«Sul punto le scelte legislative sono chiare: la segretezza vige fino alla chiusura delle indagini ovvero, pur nel corso delle stesse, fino a quando l’indagato possa legittimamente venire a conoscenza di singoli atti di indagine. Al di fuori di tali ipotesi, queste ultime sono tutelate dal segreto che è posto a presidio dell’efficienza delle stesse. Non a caso si è previsto un potere del pubblico ministero di secretare atti di indagini che non potrebbero più essere tutelati dal segreto e, d’altro canto, consentire la pubblicazione di atti non pubblicabili ovvero vietare la pubblicazione di atti che sarebbero pubblicabili».

Le variabili delle esigenze investigative, in ogni caso, prevalgono…

«Non è irrilevante la circostanza che tali variabili possono essere realizzate solo attraverso l’adozione di un decreto motivato il quale, pur nel silenzio codicistico, è da ritenere debba fondarsi su esigenze di indagini».

In ogni caso le indagini hanno una durata e, quindi, una data di chiusura: cosa succede a quel punto?

«Le indagini non possono essere illimitate nel tempo per il semplice fatto che un cittadino non può divenire un “eterno indagabile”. Se l’accusa, entro il termine fissato dalla legge, non raccoglie elementi sufficienti per esercitare l’azione penale, deve formulare richiesta di archiviazione; in caso contrario, come detto, dovrà esercitare l’azione penale ma prima deve, a pena di nullità, instaurare un contraddittorio cartolare con l’indagato preceduto dal deposito di tutti gli atti di indagine».

Solo a questo punto l’indagato potrà iniziare a difendersi.

«E’ su questi atti depositati che il sottoposto ad indagine potrà esercitare il suo diritto di difesa con le iniziative che riterrà opportune. Si tratta del primo momento in cui la difesa viene a conoscenza di tutto il materiale investigativo raccolto».

Quindi sarà il magistrato del pubblico ministero, dominus delle indagini preliminari, ad “avvisare” l’indagato del suo status.

«Potrebbe accadere che l’indagato scopra di essere tale al momento della chiusura delle indagini. E ciò, in particolare, si verifica se il pubblico ministero in quelle specifiche indagini non richiede proroghe delle medesime. In tali evenienze l’indagato, infatti, ha diritto ad un avviso, purché non si proceda per reati cc.dd. di criminalità organizzata ovvero di particolare allarme sociale, predefiniti normativamente, in relazione ai quali anche questa garanzia viene meno».

Il tema è da sempre centrale: non è inusuale che l’indagato venga a conoscenza delle indagini direttamente dai mezzi di informazione…

«Quando ciò accade mi pare ovvio che qualcosa non abbia funzionato».

A proposito: già durante gli anni di Tangentopoli la c.d. “informazione di garanzia” prevista dal codice di rito, si era praticamente trasformata in “garanzia di informazione””…

«Quella dell’informazione di garanzia è una lunga storia. Non c’è dubbio che un istituto diretto a garantire i diritti dell’indagato si sia nel tempo decisamente trasformato. Basti pensare che l’attuale codice, proprio per evitare forme di indebito utilizzo dell’informazione in discorso, ne ha previsto la notifica solo nell’ipotesi in cui si debba compiere un atto di indagine al quale il difensore ha diritto di assistere. Opzione legislativa ambigua, orientata a limitare notifiche di informazioni di garanzia al solo fine di prevenire divulgazioni di stampa».

Ma l’informazione di garanzia non viene sempre notificata!

«Perché si sposta in avanti il momento dell’eventuale notifica, tant’è che nella maggioranza dei casi le indagini si concludono senza che venga notificata l’informazione di garanzia stessa. Così, però, di fatto si è arretrata la garanzia alla conoscenza del procedimento e sul punto occorre rimarcare come la conoscenza in discorso sia il presupposto per un effettivo diritto di difesa».

A proposito…

«Non si può infatti esercitare tale diritto fondamentale se non si è a conoscenza di essere sottoposto a procedimento penale. In sostanza per combattere un indebito uso dell’informazione di garanzia si sono sottratti diritti difensivi».

Si continua ad assistere a comunicazioni a mezzo stampa di atti procedimentali a soggetti che nemmeno sapevano di essere indagati. Tale modus comportandi anche nel passato ha prodotto effetti deflagranti sul piano della politica e dell’economia. Quali sono i rischi di tali comportamenti?

«I rischi sono molteplici: in una democrazia evoluta il comando giuridico espresso dalla norma deve essere osservato e se ciò non accade deve essere sanzionato. Purtroppo ciò difficilmente avviene e tale circostanza determina inevitabilmente l’aumentare dei casi».

Sul punto occorre essere chiari…

«Nell’ordinamento non esistono diritti assoluti che secondo una felice espressione della Corte costituzionale diverrebbero “tiranni”: la libertà di stampa deve essere garantita e tutelata ma non quando vìola i precetti normativi, in quanto questi costituiscono il fondamento di quel “contratto sociale” stipulato tra cittadino e Stato. Pertanto il diritto all’informazione deve trovare dei limiti da individuarsi nella legittimità della notizia assunta e pubblicata».

Il problema non è costituito solo dalla notizia indebitamente pubblicata, ma anche da quella illegittimamente fornita.

«E qui, come accennato, necessiterebbe una maggiore attenzione alla repressione di condotte che assumono una valenza penalistica. Non si dimentichi che, anche nella nostra storia repubblicana l’indebita fuoriuscita di notizie ha comportato conseguenze politiche rilevantissime e destabilizzanti e ciò anche in quei casi in cui, anni dopo, i soggetti incriminati sono stati assolti con formula piena».

Da giurista non le sembra che il sistema sia da tempo cortocircuitato, proprio sul punto?

«Ritengo di sì, ma noto anche che il legislatore non ha il coraggio di varare riforme più decise. Ad oggi l’indebita pubblicazione di una notizia è punita con un reato oblabile, gli accertamenti sulla violazione di segreti quasi sempre non approdano a nulla, e tutto ciò crea un margine di impunità che induce ad una proliferazione dei casi».

E assoggettare a forme di responsabilità dell’editore le evenienze di indebita pubblicazione di notizie?

«In tale evenienza vi sarebbe certamente più attenzione proprio da parte dell’editore. Né si dica che la proposta ha un sapore liberticida per il semplice motivo che non può invocarsi un valore nobile come la libertà a scudo del mancato rispetto delle regole»

Eppure le norme per il rispetto delle persone sottoposte alle indagini esistono.. Cosa non funziona?

«Semplice, non funziona il rispetto delle regole e sul punto mi piace ricordare quel che all’indomani dell’entrata in vigore del codice Vassalli mi disse, nel mentre si discuteva di alcuni aspetti della riforma, Giovanni Conso: “questo è un codice la cui riuscita dipende dalla regolarità dei comportamenti delle parti”».

Procure colabrodo o giornalisti deontologicamente scorretti?

«Giudizi di genere è sempre difficile esprimerli, e quel che mi si chiede è un vero e proprio uovo di Colombo. Una cosa è certa: se i giornalisti non hanno la notizia non possono pubblicarla».

* Filippo Dinacci, classe 1961, è Ordinario di Diritto Processuale Penale nell’Università LUISS Guido Carli di Roma, dopo aver insegnato sempre da ordinario nell’Università degli Studi di Bergamo. Avvocato cassazionista, nel 2006 era stato nominato componente della segreteria scientifica della Commissione di riforma del Codice di procedura penale, mentre dal 2007 al 2017 è stato titolare del corso “Diritto processuale penale interno e comparato” presso la Scuola Superiore di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza. E’ nel board di prestigiose riviste di settore come “Le ragioni del garantismo”, “Archivio Penale”, “Questioni nuove di Procedura Penale”, “Anales de Derecho” dell’Università di Murcia “Cassazione penale”. Come avvocato ha assunto la difesa in delicati processi di grande rilevanza politica ed economica.

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