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Flannery O’Connor: c’era una volta l’America

Flannery O’Connor: c’era una volta l’America

Questa scrittrice stupefacente, dalla vita tragica ma luminosa, è stata capace di raccontare l’umanità intera. Come rivela oggi
la sua prima biografia italiana.


Il momento più bello nella vita di Flannery O’Connor fu quando vennero a riprendere i suoi polli. Lei aveva cinque anni e viveva a Savannah, cittadina della Georgia dov’era nata nel 1925. Come tanti altri nel Sud degli Stati Uniti abitava in una fattoria, e la frequentazione dei volatili era quotidiana. Mary Flannery, questo il suo nome risuonante di schiatta irlandese, era una bambina timida, riservata. Agli amichetti, in fondo, preferiva le galline.

«Pathé News aveva inviato un cineoperatore da New York a Savannah per riprendere uno dei miei polli» scriverà anni dopo. «Il pollo, un bantam marroncino della Cocincina, aveva la particolarità di camminare sia in avanti sia all’indietro. […] Da quel giorno ho iniziato a collezionare polli. Ciò che era un vago interesse si è trasformato in passione, in ricerca». Nel filmato compariva anche lei: «Ero lì solo come assistente della gallina, ma è stato il momento culminante della mia vita. Da allora tutto è stato un anticlimax». A dire la verità, quella volta le cose non andarono proprio benissimo. Il pollo, certo, aveva imparato a camminare all’indietro: Flannery glielo aveva insegnato con pazienza. Ma quando l’operatore si presentò, il pollastro non ne volle sapere. Chissà, forse l’emozione. Così lo ripresero mentre camminava normalmente, poi montarono il filmato al contrario: potenza della fiction.

La passione della O’Connor per i volatili non era un’invenzione. L’accompagnò sempre, manifestazione visibile delle sue origini rurali, come il marcato accento del Sud che faceva sorridere i letterati newyorkesi. Per Flannery, dopo tutto, il radicamento è stato essenziale: «La terra che sta a cuore allo scrittore nel modo più obiettivo è, naturalmente, la regione che più da vicino lo circonda, o semplicemente la terra, col suo insieme di usi e costumi, che conosce abbastanza bene da utilizzare» dirà nel saggio Lo scrittore di narrativa e la sua terra. Le serviva, quella terra piena di contraddizioni, per scrivere di ciò che più le interessava: non il pollame, ma la fede cristiana. «Lo scrittore della tematica religiosa necessita soprattutto di una regione dove tale tematica trovi riscontro nella vita della gente. E, in quanto a luoghi che riflettano la sua particolare vita religiosa e i suoi particolari problemi, il cattolico americano non ha davvero molta scelta». La scelta non era granché: non rimaneva che parlare del Sud, dei suoi campi, delle sue bestie e dei suoi strani abitanti.

Eppure, pur potendo muoversi in un raggio d’azione apparentemente limitato, la signora O’Connor ha saputo raccontare l’umanità intera, in ogni dettaglio. Chissà come ci è riuscita. Forse l’ha aiutata – suo malgrado – essere costretta a fare i conti con tutto quel dolore. Nel 1951, a soli 26 anni, le diagnosticarono il lupus. Nel 1964 non era già più su questa terra. Ebbe giusto il tempo per una veloce avventura amorosa, ma la sfortuna si accanì anche in quel caso. Lui si chiamava Erik Langkjaer, e se volete conoscerne la storia intera non dovete far altro che leggere un bellissimo libro appena pubblicato dalle edizioni Ares. Si intitola semplicemente Flannery O’Connor, ed è la prima biografia italiana della scrittrice, magistralmente portata a temine da Fernanda Rossini.

Il rapporto tra Erik e Flannery, viene raccontato nei particolari, e commuove. Lei, che aveva la scorza dura, si era fatta prendere da quel ragazzo biondo e belloccio, rappresentante di libri. Lo cercava, lo considerava in grado di condividere i suoi pensieri e le sue passioni. Lui, però, non capì o non volle capire: «La sua battaglia contro il lupus l’aveva in qualche modo deformata e io non ero maturo abbastanza per prendere anche solo in considerazione l’idea del matrimonio» dirà molto tempo dopo. Dolore, sempre dolore.

Ma anche tanta bellezza nella fugace vita di questa donna stupefacente. Tra il dicembre 1943 e il febbraio 1944, appena diciottenne, tenne un diario che già rivelava il suo immenso talento, e che la Rossini traduce per la prima volta in italiano. Da quelle pagine adolescenziali esplode, potente, la fede che illuminerà tutte le opere successive. Annodata, manco a dirlo, con l’immancabile sofferenza: «Non sono soddisfatta di me stessa ma sento che Dio ha svuotato la mia vita di proposito, perché io possa riempirla in qualche altro meraviglioso modo. La parola “meraviglioso” mi spaventa. Potrebbe essere qualsiasi altra cosa, tranne che meraviglioso» scrive a un certo punto.

Il giorno successivo, riferendosi alla morte dell’amatissimo padre avvenuta da poco, aggiunge: «Dio deve volere che io impari qualcosa da tutto questo, ma non saprei dire cosa, a meno che sia – no, è – non so che cosa sia. Più ci penso, più mi confondo. Dio, per favore, disinfetta la mia mente». Poco più avanti, un’altra professione: «Quello che scrivo tradisce la mia confusione. Devo pregare. Attribuisco ogni cosa che ho fatto alla preghiera. Non penso che Dio mi deluderà in futuro se prego, se mi sforzo di credere. Oh, caro Dio, per favore fa’ che io non venga coinvolta dall’immensa nonchalance con la quale il mondo socialmente scientifico guarda all’eternità».

Nel manoscritto si trovano altri passaggi suggestivi. Come quello in cui riflette sulla sua esperienza all’università: «Sono disgustata dal modo in cui questo processo di scolarizzazione formale mi sta sommergendo e sono almeno un po’ disgustata da me stessa perché mi ci adeguo». O quello in cui si lamenta delle conoscenze superficiali di cui la imbottiscono in classe: «Dovrei essere impegnata a scrivere e leggere e ad assorbire le cose che mi circondano, non a memorizzare il numero di giorni piovosi e di sole in Georgia. Sono stanca. Sono disgustata. Voglio vivere – non funzionare».

Purtroppo, né la fede profonda né l’inusuale schiettezza l’hanno aiutata a farsi una reputazione nel bel mondo letterario. Anzi, si può perfino dire che le abbiano nuociuto. Negli ultimi tempi, poi, l’ideologia psicotica ha cominciato ad accanirsi sulla nostra Flan, tentando di ridurla a una bifolca bigotta e razzista. Un saggio accademico prima e un lungo articolo del New Yorker poi, un annetto fa, hanno cercato di ricostruirne il punto di vista sulla questione razziale. Visto il clima da caccia alle streghe che da tempo ammorba gli Stati Uniti, era quasi inevitabile che il sospetto aleggiasse su miss O’Connor, una che non le mandava a dire.

No, razzista non lo era. Ma non le piacevano le imposizioni. Non le andava giù il modo in cui i fighetti nordisti giudicavano il Sud e i suoi abitanti, bianchi e neri: «Per il resto della nazione, il problema della razza è risolto quando i neri hanno ottenuto i loro diritti, ma per l’uomo del Sud, bianco o nero, è solo l’inizio. Il Sud deve sviluppare uno stile di vita in cui le due razze possano vivere con reciproca tolleranza. È inutile formare una commissione per realizzarlo o approvare una risoluzione; le due razze lo devono trovare con fatica. In certe zone del Sud queste nuove maniere prendono forma in modo soddisfacente, ma le buone maniere raramente fanno notizia».

Certo non amava gli attivisti per i diritti civili invasati. Come lo scrittore nero James Baldwin, oggi tornato in auge per l’ossessione antirazzista. «Baldwin potrà anche dirci che cosa si prova a essere un nero di Harlem, ma il problema è che cerca anche di dirci la sua su tutto il resto» ebbe a scrivere la O’Connor. «Preferisco Cassius Clay: “Se una tigre entra nella stanza dove sei tu e tu te ne vai, non significa che odi la tigre. Significa solo che tu e la tigre non potete andare d’accordo. Si parla troppo di odio».
Ecco com’era, Flannery: dolce, ma diretta. Raffinatissima, ma scorretta. Piena di fede e pietà, ma pungente. Addolorata, ma fortissima e serena. Semplice, ma capace di scrivere capolavori come La saggezza nel sangue e Il cielo è dei violenti, immortali. Geniale e dotatissima, ma consapevole che al mondo, dopo tutto, non c’è nulla di più bello e importante che allevare un pollo come Dio comanda.

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