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Afghanistan, cartoline dalla guerra più lunga

Afghanistan, cartoline dalla 
guerra più lunga

Il giornalista, firma di Panorama, che per decenni ha vissuto in prima persona il conflitto nel Paese-chiave dell’Asia ne ricostruisce le fasi più significative. Da cui emergono i segnali di un futuro incerto e, potenzialmente, drammatico.


La bandiera di guerra del 186° Reggimento Folgore è rientrata in Italia da Herat, il 25 giugno, dopo i vent’anni della missione italiana più lunga. In Afghanistan, la «tomba degli imperi», ho raccontato e vissuto sulla mia pelle tanti reportage dall’invasione sovietica a oggi. I filorussi mi hanno catturato e messo in galera per sette mesi e un camion militare ha provato a farmi secco a Kabul riducendomi in fin di vita, ma sono sempre tornato nella mia «seconda patria». I ricordi, le paure, le emozioni si mescolano in queste «cartoline dall’Afghanistan» per Panorama su un conflitto che dura dal 1979 e non è finito. Ora che ce ne andiamo, mi torna in mente la frase di un comandante talebano: «Voi avete l’orologio, la tabella di marcia, le date per i rinforzi e per il ritiro. Noi abbiamo il tempo. Per questo vinceremo».

CONTRO L’ARMATA ROSSA

Il comandante Ahmadi, armato solo della radio portatile, urla «Allah o akbar», Dio è grande e i suoi uomini annidati in un wadi innestano le baionette. Poi scattano all’assalto come i fanti della Prima guerra mondiale sul Carso. La paura si mescola all’adrenalina e all’eccitazione di un assalto dirompente, fra morti e feriti, che travolge il campo trincerato. Nei dieci anni di guerra spietata dell’Armata rossa l’assalto alla baionetta dei mujaheddin, alle postazioni governative nella valle di Keran, oltre la catena dell’Hindu Kush, quasi al confine con la Cina, è un’indimenticabile immagine dall’Afghanistan. Il giorno prima davanti a un gigantesco plastico della zona della battaglia il segaligno e leggendario Ahmad Shah Massoud, pizzetto dannunziano, aveva chiesto a uno sparuto manipolo di giornalisti: «Dove volete stare durante l’attacco?». Il «leone del Panjshir» che ha resistito alle offensive di sovietici e talebani nella sua indomita valle sarà la prima vittima dell’11 settembre ucciso alla vigilia dell’attacco all’America da due finti giornalisti in realtà terroristi di Al Qaida.

GUERRA VINTA, MA PACE PERSA

La bandiera rossa con la falce a martello sventola a Kabul sulla grande parata d’addio agli sciuravì, gli invasori russi, che si ritirano da una guerra costata cara. Pochi mesi dopo crolla il muro di Berlino e l’Urss si dissolve. Nel 1992 i mujaheddin entrano vittoriosi a Kabul, ma dopo avere vinto la guerra contro l’Armata rossa perdono la scommessa della pace scannandosi fra loro. In mezzo alle sventagliate di una mitragliatrice 12.7 mi arrampico verso il forte di Bala Hissar, che domina la capitale. I giannizzeri uzbechi hanno ordini precisi: «Non fate prigionieri». Ai nemici uccisi tagliano le orecchie per dimostrare al comandate quanti ne hanno fatti fuori. Nell’anarchia i talebani cresciuti in Pakistan hanno gioco facile a imporsi con Corano e moschetto. Nell’anno 1419 (per noi 1998) del calendario islamico mi lascio alle spalle le anguste gole del Khyber pass, dove Rudyard Kipling descrisse glorie e tragedie dell’impero britannico alla conquista dell’Afghanistan, per entrare in un mondo tornato al Medioevo. A Jalalabad, maulawì Naik Muhammad, un comandante della polizia religiosa, tenta di convertirmi mostrandomi orgoglioso «gli strumenti del diavolo», un cimitero di televisori, antenne e nastri srotolati di cassette della peccaminosa musica occidentale che penzolano da un albero, come se fosse una forca. A Kandahar, «capitale» del mullah Omar, il leader degli studenti guerrieri cieco da un occhio, dormo nel compound del governatore a fianco della reggia di Osama Bin Laden. Il padrone di casa, Moullah Rahman, una gamba di legno per averla persa contro i sovietici, si raccomanda: «Non fotografare la casa dello sceicco». Fedelissimi mascherati e armati fino ai denti di guardia, alte mura di cinta sovrastate da filo spinato, la «reggia» è resa tale da due pinnacoli ai lati del massiccio portone, che sembrano minareti con la scritta in ferro: «Allah o akbar». Grazie alla complicità di un anziano autista di risciò, che simula un guasto di fronte all’ingresso, riesco a scattare di nascosto le foto della residenza bunker. Il rullino lo nascondo nel giaccone, che una volta tornato a casa mia moglie metterà per sbaglio in lavatrice distruggendo lo scoop.

IL TRICOLORE SU KABUL

Il turbante nero sforacchiato è abbandonato nella polvere. Sul fianco destro della vallata di Shomalì si scatena una battaglia fra carri armati, con i tank anti-talebani che avanzano eruttando fiammate a ogni cannonata. I B-52 americani arrivano a ondate e scaricano ad alta quota grappoli di bombe che radono al suolo la prima linea alzando un muro di fuoco. La battaglia dura per ore, ma la mattina dopo, il 13 novembre 2001, a due mesi dall’11 settembre il destino mi regala la liberazione di Kabul il giorno del quarantesimo compleanno.

Nel parco di Shar-i-Nau i corpi dei volontari arabi e pachistani di Al Qaida sono riversi in una fogna a cielo aperto. Alcuni cadaveri portano segni di torture ed esecuzioni sommarie con il classico colpo di pistola alla nuca. Tutti hanno infilato in bocca, nelle narici o nel cranio fracassato delle banconote di afghani, la valuta locale come segno del disprezzo per chi era al soldo di Osama bin Laden. Mai avrei pensato che su questo caos, nel giro di poche settimane, sarebbe sventolato il tricolore a Kabul.

L’elisbarco con i fanti dell’aria della brigata Friuli a Bala Murghab circondata dai talebani. Le aspre battaglie dei paracadutisti nella polvere dell’Afghanistan occidentale, dove i veterani dicevano «per noi la sabbia è sempre la stessa da El Alamein». Gli X file ovvero il reportage tabù con i corpi speciali della Task force 45 e la prima ritirata degli alpini dall’inferno di Bakwa. I feriti e il caduto, avvolto dentro un telo mimetico in una foto che sembrava il Vietnam. Tutti ricordi indelebili della guerra di pace dei soldati italiani, che non portavano solo caramelle ai bambini. Da giornalista embedded avevo messo nel conto la trappola esplosiva sulla Barbie 515, nome in codice di uno sterrato fra Farah e Bakwa. Un super blindato Cougar salta in aria come un fuscello sul piatto di pressione sotterrato dai talebani con 50 chili di tritolo. Il drone che sorveglia la colonna dall’alto filma l’esplosione, che alza una terrificante colonna di fumo color ocra. Il blindato sembra scomparire e la sensazione, all’interno, è di una mano gigantesca del Dio talebano che afferra il bestione da 14 tonnellate scuotendolo come una macchinina giocattolo. La pesante corazza del mezzo di fab­bricazione Usa e le cinture da For­mula 1, per rimanere ancorati ai sedi­li, ci salvano la vita. Una volta al sicuro il tenente Davide Secondi pronuncia una proverbiale battuta: «Per un guastatore è il battesimo del fuoco, ma ci ag­giungo la comunione e la cresi­ma. Una volta per tutte basta».

LA RIVINCITA TALEBANA

La cannonata provoca una fiammata giallo-rossa avvolta da una nuvola di fumo. Il pezzo d’artiglieria da 122 millimetri fa tremare il terreno ogni volta che l’ufficiale afghano ordina di far fuoco. L’obiettivo è un centro di comando talebano a 50 chilometri da Kabul, nella provincia di Wardak, porta d’ingresso della capitale. A fine 2019 le forze di sicurezza afghane addestrate e finanziate dalla Nato sono da anni impegnate nel fronteggiare i talebani. Senza l’appoggio aereo della coalizione sarebbero state travolte da tempo. Per viaggiare fuori Kabul un occidentale deve camuffarsi facendosi crescere la barba e vestirsi da afghano con i pantaloni a sbuffo e la tunica, altrimenti rischia il rapimento o peggio.

Il buio pesto di una notte senza stelle è squarciato dai bagliori rossastri della mitragliatrice pesante sul tetto di un blindato, che sputa raffiche verso valle. I talebani hanno attaccato una base avanzata della polizia ad un passo da Maidan Shar, capoluogo della provincia del Vardak. Dietro i sacchetti di sabbia gli agenti di vent’anni, ma già veterani, scaricano un fuoco di copertura per dare man forte ai commilitoni semi assediati nel fondo valle. Il comandate, vestito da civile, infila una granata da 80 millimetri dietro l’altra nel tubo di lancio del mortaio. La paga media di un soldato afghano è di 11.500 afghani, meno di 200 euro, per rischiare la vita ogni giorno. Nei periodi più sanguinosi si registrano 300-400 caduti al mese. Dall’inizio del ritiro della Nato, basi e avamposti isolati si stanno già arrendendo. Gli eredi del mullah Omar avanzano ovunque. Un déjà vu dal ritiro sovietico alla guerra civile degli anni Novanta fino all’avvento al potere degli estremisti. La speranza è che la cartolina dall’Afghanistan del prossimo 11 settembre, data ufficiale per la fine della missione internazionale, non sia la parata della vittoria già annunciata dai talebani.

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