L’inviato di Panorama in Cisgiordania racconta la collera della popolazione per l’avanzata israeliana che ora investe città e campi profughi. È qui, dove si vive tra povertà e corruzione di chi dovrebbe governare, che i gruppi terroristici fanno proseliti tra i più giovani.
I mujaheddin sono vestiti completamente di nero con il volto coperto per non venire riconosciuti dai soldati israeliani. Le «battaglie», se non saltano fuori le armi, si combattono con sassi contro lacrimogeni. È il furore. All’ingresso della strada principale che porta ad Abu Dis, piccolo centro della Cisgiordania, un enorme cartello governativo rosso ricorda agli israeliani «che entrate a vostro rischio e pericolo». Il Davide palestinese salta fuori di scatto e lancia la pietra verso le postazioni dei soldati che presidiano il muro di protezione che separa la cittadina da Gerusalemme est. Alcuni ragazzini ancora più giovani appoggiano i mujaheddin attirando l’attenzione con schiamazzi e insulti. Il Golia israeliano risponde con i lacrimogeni e, se a un certo punto si stanca, spara qualche colpo di fucile di avvertimento.
Quando il gioco si fa duro scoppia la «guerra», come la notte fra il 4 e 5 novembre. Reparti speciali israeliani hanno individuato il ricercato Nabil Halabiye dopo una caccia durata due mesi. Si nascondeva in una casupola in cemento in mezzo al territorio di nessuno di Abu Dis. Al posto della resa ha scelto la morte. La battaglia è durata cinque ore e del nascondiglio è rimasto un cumulo di macerie. Gli israeliani, una volta espugnato, l’hanno fatto saltare in aria. Sull’unica parete intatta si riconosce l’impronta della mano insanguinata di Nabil. Il suo corpo è stato portato via nella pala di un escavatore, temendo nascondesse una cintura esplosiva. «Era un bravo ragazzo» dice ora suo padre, Abdel Reouf Halabiye. «L’avevano messo in galera già due volte e mi ha giurato che non sarebbe mai più tornato dietro le sbarre». Nabil aveva 25 anni, ma accanto al padre ci sono altri familiari di due «martiri», come li chiamano i palestinesi, di 19 e 21 anni uccisi la stessa notte di battaglia. «Se Dio vuole mio figlio è in Paradiso» sentenzia il padre con lo sguardo triste e la barba grigia. Per lui l’unica soluzione «è che gli ebrei tornino in Europa da dove sono venuti, in Africa o qualsiasi altro posto». Alla veglia funebre hanno partecipato almeno un migliaio di persone.
In Cisgiordania, dove vivono oltre tre milioni di palestinesi, la guerra a Gaza scatena gli animi. Il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen è poco amato e in molti pensano che controlli solo la Muqata, il suo palazzo a Ramallah ereditato dai tempi degli inglesi. «Lo disprezziamo» ripete un giovane capopopolo dei ribelli di Abu Dis. «Deve stare attento perché potrebbe fare una brutta fine». L’8 novembre scorso le forze di sicurezza dell’Autorità nazionale palestinese hanno ingaggiato battaglia nel campo di Jalazone, a Ramallah, cercando di arrestare dei sospetti. Non si vota dal 2009 e se fossero indette elezioni rischierebbe di vincere Hamas.
Le brigate Ezzedin al-Qassam spuntano fuori con i loro uomini mascherati e armati ai funerali dei «martiri» a Jenin o Nablus, dove si allargano i campi profughi. In Cisgiordania operano anche le brigate Al Aqsa, braccio armato di Fatah, il partito al potere. In alcune aree sono ancora forti i gruppi di fuoco legati ai partiti laici, un tempo finanziati dall’Unione sovietica, come il Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp), nella lista delle organizzazioni terroristiche. E fa proseliti la Jihad islamica con le sue cellule armate. Una polveriera che sta esplodendo con il lockdown israeliano imposto dopo il 7 ottobre, che ha provocato 163 morti in un mese, 2.150 arresti, 740 appartenenti a fazioni islamiche e alla cattura di 46 ricercati, di cui 30 di Hamas. La fondatrice di una Ong che aiuta le vittime di stress post-traumatico non vuole vedere pubblicato il suo nome, ma ammette che «in un sondaggio su cosa vogliono fare da grandi gli adolescenti dai 12 ai 14 anni, la stragrande maggioranza ha risposto “i leoni di Hamas” o gli “ingegneri dei razzi”».
Non c’è da stupirsi se alle proteste dei giovani arrabbiati con le bandiere della Palestina i più piccoli si presentano con un mitragliatore stampato sulla maglietta bianca. E i più grandi urlano: «Allah è grande, morte agli infedeli» e «Palestina libera». Gli ideologi con i capelli bianchi non mancano, come Mazim Qumsiyeh, dell’Università di Betlemme. Se gli chiedi dei rapiti israeliani a Gaza ti risponde: «Noi siamo ostaggi da 70 anni, cinque milioni di ostaggi. Non posso neanche andare a Gerusalemme». Gran parte dei palestinesi non condanna Hamas e ribatte, riferendosi al massacro, che «abbiamo subito tanti 7 ottobre da parte degli ebrei». I serbatoi di futuri «leoni», come vengono chiamati gli uomini delle brigate armate, sono i campi profughi ormai diventati quartieri. I vecchi militanti dell’Fplp, fra le fotografie del caudillo venezuelano Hugo Chávez e foto di tour culturali in Italia, ti dicono «sono nato e cresciuto in questo campo, spero di non morire qui dentro». Tutti hanno una chiave per le serrature vecchio stile, tramandata da padre in figlio, delle case perdute durante le guerre contro Israele dello scorso secolo. Sui muri esterni del campo-quartiere di Aida sorprendono numerose scritte in italiano. «Palestina libera» con una stella a cinque punte e «Napoli» come firma. Su un manifesto la frase in italiano: «Resistenza senza compromesso fino al ritorno» sovrasta un miliziano palestinese accovacciato con l’arma in pugno. La scritta con lo spray nero: «No al sionismo, libertà a tutti i prigionieri» si riferisce ai detenuti palestinesi in Israele, ma probabilmente anche agli antagonisti sotto processo o nelle carceri in Italia. Non a caso molti slogan sono siglati con la «A» dell’anarchia.
Le vostre prigioni non fermeranno la solidarietà internazionale» e ancora «Qui ed ora è un qualsiasi luogo, in un qualsiasi momento, solidarietà con chi si ribella». In quest’ultima scritta compaiono anche quattro nomi, Claudio, Nicco, Mattia e Chiara, arrivati dall’Italia ad aiutare la gente dei campi. Al Jazeera, che trasmette no-stop l’orrore in diretta da Gaza, è il canale sempre acceso nelle case, ma fra i più giovani sono i video con montaggi hollywoodiani di Hamas in stile Isis che vanno per la maggiore nelle chat dei telefonini. Mezzi israeliani centrati dai razzi anticarro fra le macerie della Striscia e indomiti mujaheddin che combattono casa per casa. La propagande funziona. I cristiani di Betlemme, dov’è nato Gesù, sono fra i palestinesi più moderati. «Sogno e spero che possa tornare la pace. Quello che davvero conta è vivere» sostiene George Lolas, che fa l’artigiano dei souvenir per i pellegrini. «Questa è la bellissima strada delle stelle sempre piena di turisti» dice la guida Khamal Mukarker. «Adesso è deserta e con i negozi chiusi. Se nessuno fa acquisti non c’è cibo sul tavolo». L’esodo dei cristiani, verso l’Europa o gli Stati Uniti, è da tempo una triste realtà. Anche Jiries Qumsiyeh del ministero del Turismo palestinese è disperato per il conflitto: «Entro fine anno avevamo previsto tre milioni di visitatori. Tutte le prenotazioni degli alberghi sono state cancellate. E non potremo neanche garantire le celebrazioni natalizie».
L’attacco di Hamas ha lasciato nel limbo migliaia di palestinesi di Gaza, che lavoravano in Israele. Gli israeliani gli hanno requisito i documenti e in molti casi sbattuti in galera. In centinaia si sono rifugiati a Ramallah dove vivono accampati in un edificio governativo. Molti sono papà che vorrebbero disperatamente tornare a casa dalla loro famiglie per «morire con i nostri figli piuttosto che continuare a vivere sapendo che sono in pericolo» sottolinea Khaled. Poi tira fuori il cellulare per mostrarci la foto della figlia Malak di 14 anni. Hassan è inferocito e fa vedere il faccino di una neonata: «Aveva cinque mesi ed è stata uccisa da una bomba. Mia moglie è ferita assieme agli altri figli». Abu Mohammed con il volto gonfio di rabbia ribatte: «Non ce ne frega nulla della guerra. Abbiamo bisogno di un corridoio sicuro per poter tornare a casa». Un papà disperato ha appena ricevuto un messaggio drammatico, firmato Abdo: «Abbiamo visto la morte negli occhi. Le schegge volavano sopra le nostre teste. Stiamo morendo».