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Salafiti e Al Sisi a braccetto. Fratelli Mussulmani all’angolo

Salafiti e Al Sisi a braccetto. Fratelli Mussulmani all’angolo

Era lo scorso ottobre, quando il presidente egiziano, Abdel Fattah al Sisi, ha nominato due esponenti del partito salafita al‑Nour al Senato. Si tratta di una mossa significativa, che evidenza ulteriormente la convergenza in corso tra i salafiti e il leader egiziano.


Una convergenza che, a prima vista, potrebbe apparire paradossale, vista la storica ostilità del nasserismo (lato sensu) nei confronti dell’islamismo. Eppure, la situazione è ben più complessa di come possa superficialmente sembrare.

Fondato nel maggio del 2011 (nel pieno della cosiddetta “primavera araba” che aveva poco prima portato alla deposizione di Hosni Mubarak), al-Nour diede inizialmente il proprio appoggio a Mohamed Morsi, notoriamente legato ai Fratelli Musulmani. In quel periodo, i salafiti costituirono in un certo senso l’ala destra del nuovo potere, esortando quest’ultimo ad imprimere un radicale processo di islamizzazione dell’Egitto. Pur condividendo di fatto l’obiettivo, Morsi fu tuttavia costretto a muoversi più lentamente, anche per cercare di consolidare il proprio scricchiolante potere politico. La situazione iniziò a mutare nel 2013, quando – con il colpo di stato di al Sisi – al-Nour prese le distanze da Morsi e dai Fratelli Musulmani, per avvicinarsi progressivamente al generale. Una convergenza che, nel tempo, si è sempre più cementata. Tanto che, nel 2018, al-Nour diede il proprio endorsement formale alla seconda candidatura presidenziale di al-Sisi. In questo modo, i salafiti hanno conseguito alcuni importanti risultati in Egitto: sono riusciti innanzitutto a evitare di incorrere nella repressione di cui è rimasta vittima la Fratellanza Musulmana. Inoltre, negli ultimi anni, hanno mantenuto il controllo di alcune moschee e sono ampiamente presenti nel dibattito pubblico e mediatico. Un elemento che ha determinato le critiche dei settori più liberal democratici della società egiziana.

Se i vantaggi conseguiti dai salafiti sono palesi, più difficile da comprendere potrebbe sembrare l’appoggio a loro conferito da al-Sisi, che si è sempre presentato come un baluardo contro l’islamismo. In realtà, il presidente egiziano con questa convergenza ha sempre puntato a due obiettivi decisivi. In politica interna, vuole isolare la Fratellanza e – come riferito da The Arab Weekly nel 2018 – respingere le sue accuse, volte a dipingerlo come un uomo in guerra con l’Islam. Inoltre, si scorgono anche dinamiche di politica estera. Secondo alcuni media, sembra infatti che al-Nour goda dei finanziamenti dell’Arabia Saudita: quella stessa Arabia Saudita che notoriamente risulta una storica alleata dell’attuale presidente egiziano. Riad e Il Cairo condividono del resto la medesima linea di strenua opposizione nei confronti dei Fratelli Musulmani, da loro considerata come fonte di instabilità politica. E, in tal senso, non è escludibile che proprio al-Nour possa costituire uno dei canali di questa alleanza.

La dinamica è tanto più chiara alla luce del fatto che la Fratellanza, negli ultimi anni, avrebbe cercato di intrecciare dei legami con l’Iran: quell’Iran che rappresenta non a caso il principale rivale dell’Arabia Saudita. Nel novembre del 2019, il sito The Intercept riferì di un incontro segreto – avvenuto nell’aprile del 2014 – tra i vertici della Fratellanza egiziana e alti esponenti della Forza Quds (componente delle Guardie della Rivoluzione Islamica, all’epoca guidata dal generale Qasem Soleimani). L’incontro era stato concepito per costituire un’intesa in chiave anti-saudita. Non dimentichiamo del resto che, durante la breve presidenza di Morsi, le relazioni tra Egitto e Iran fossero migliorate. Un rasserenamento tuttavia di fatto interrottosi con l’ascesa al potere di al Sisi. Insomma, il sentore di una convergenza tra Teheran e il ramo egiziano della Fratellanza non ha fatto altro che cementare l’asse tra Riad e Il Cairo: un fattore che ha a sua volta rafforzato la posizione dei salafiti in Egitto.

È del resto sempre in questo quadro che la rete salafita risulta particolarmente attiva anche nello scacchiere libico. Se la Turchia in loco spalleggia il governo di Tripoli (che intrattiene stretti legami con i Fratelli Musulmani), Khalifa Haftar – al contrario – si appoggia a gruppi salafiti madkhalisti: gruppi che – secondo l’Atlantic Council – avrebbero guadagnato non poco terreno nell’Est della Libia. In particolare, sarebbero riusciti a conseguire cariche prestigiose nel settore militare, oltre a controllare di fatto gran parte del quadro religioso nella regione. Un potere crescente, di cui il maresciallo della Cirenaica si serve per contrastare i suoi avversari (a partire proprio dalla Fratellanza Musulmana). E, anche qui, troviamo ovviamente la dimensione geopolitica. I salafiti madkhalisti sono storicamente legati all’Arabia Saudita che non a caso risulta, insieme all’Egitto, tra i principali sponsor regionali di Haftar in chiave anti-turca. Da tutto questo è chiaro come, nei prossimi anni, le dinamiche politiche in Medio Oriente e Nord Africa continuerà ad essere dettato (anche) dal confronto tra salafiti e Fratelli Musulmani.

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