Barricate messe insieme con sacchi di sabbia, reti e copertoni. Autobus di traverso a bloccare le strade. Giovani con bottiglie molotov. Non fermano missili, carri armati o bombe, ma costringono i soldati di Mosca a una guerriglia di sangue casa per casa.
Il reportage dalla battaglia di Kiev.
Il giovane saldatore è un partigiano della resistenza, che si organizza a Kiev in ogni quartiere. Nella «base» in mezzo ai palazzi di vecchia architettura socialista, salda grosse sbarre a X l’una con l’altra per mettere insieme i cavalli di Frisia, che verrano piazzati in mezzo alla strada nella speranza di fermare i carri armati russi. «Come i giovani che si sono immolati a Budapest e Praga contro l’Armata rossa siamo pronti, siamo forti e non abbiamo paura di morire per la patria» garantisce Artem Zinchenko, barba curata e bomber nero. Nome di battaglia Avik, a 26 anni guida la difesa popolare in un quartiere nel mirino dell’attacco russo contro la capitale.
Sulla strada principale, i patrioti di Avik hanno messo su una tripla fila di barricate. Sacchetti di sabbia, copertoni, pezzi di cemento, reti, che difficilmente fermano i tank russi. «Molti di noi sono civili, ma siamo nati qui e questo è il nostro Paese» dice in inglese una ragazza bionda. «Nel quartiere sono cresciuta e andata a scuola là di fronte. Per questo siamo pronti a fermare Putin».
In mano stringe una bottiglia molotov come gli altri giovani volontari, che scherzano: «Tu hai vino bianco, spumante o birra?».
Katya, una ragazza mora, mostra come si prepara una molotov: prima la pece, poi la benzina e alla fine lo straccio che fa da miccia. La bottiglia incendiaria finisce in una cassetta da fruttivendolo nell’arsenale scavato nel cortile della «base». Avik è un veterano della rivolta di piazza Maidan, nel 2014, dove tutto è iniziato con il colpo di mano contro il presidente filo russo Viktor Janukovyc, la zampata di Mosca in Crimea e l’esplosione della guerra civile nel Donbass.
Il giovane capo dei partigiani ama l’Italia, che ha visitato sei volte da Milano a Napoli. E nella nostra lingua dice che «se riusciamo a colpire con otto-dieci molotov un blindato russo lo fermiamo, come abbiamo fatto a Maidan». Il ministero della Difesa ucraino ha pubblicato in rete le istruzioni su come e in che punti colpire i mezzi militari di Mosca con bottiglie incendiarie.
Le molotov non potranno fermare l’attacco finale. Assieme alla distribuzione di armi ai civili, alla mobilitazione di 36.000 riservisti e alla brigata di 6.000 uomini della difesa territoriale nella capitale composta anche da civili che si erano addestrati nel fine settimana da mesi, servono però a intrappolare le truppe di Mosca in una battaglia casa per casa. Un bagno di sangue, che rimarrebbe per sempre una vergogna indelebile dell’ultimo zar, Vladimir Putin.
Kiev si è trasformata in un luogo fantasma disseminato di barricate, di cumuli di copertoni per restringere la carreggiata delle vie più larghe e con gli autobus gialli piazzati in mezzo alla strada sul lungofiume. La capitale ricorda Sarajevo 30 anni fa alla vigilia dell’assedio.
Le colonne di fumo scuro si alzano verso il cielo a due-tre chilometri dalla periferia, poco dopo gli ultimi palazzi all’orizzonte. I missili balistici Iskander o quelli lanciati dai bombardieri strategici in volo fuori dallo spazio aereo ucraino hanno iniziato a colpire la capitale il primo marzo. Prima la torre della televisione danneggiata e poi obiettivi più vicini al centro come il ministero della Difesa.
«I sabotatori russi sono arrivati a Kiev mesi fa, affittando anonimi appartamenti o alloggiando in residence in attesa dell’invasione. Ogni notte gli diamo la caccia» sostiene Alexander Yurchenko, parlamentare di Kiev sulle barricate. Il giorno dopo, vedo abbandonate in mezzo alla strada alcune macchine crivellate di colpi.
La paranoia degli infiltrati russi ha riempito la città di posti di blocco. I volontari della difesa territoriale con la fascia gialla al braccio sono nervosi. Colpo in canna senza sicura, puntano il kalashnikov anche a una macchina della polizia che non rallenta al check point. Urla, imprecazioni e fucili spianati, alla fine gli agenti fanno capire che non sono sabotatori russi mascherati.
A una barricata viene intercettato una persona in abiti civili con passaporto russo. I civili armati l’arrestano e poco dopo arrivano due macchine della polizia da dove scendono dei «Rambo», il volto coperto dai passamontagna. Prendono in custodia il prigioniero, legandogli le mani dietro la schiena e sventolando in aria con disprezzo il documento con l’aquila bicefala. Il terzo giorno di guerra era scoppiato un violento scontro a fuoco a pochi passi da piazza Maidan.
Un camion ucraino era stato crivellato di colpi e il sangue degli uomini a bordo si riconosce ancora, sul selciato e sul cassone posteriore. «Un’operazione di sabotatori che con divise del nostro esercito volevano arrivare in centro. Li hanno fermati, però» racconta Zhanna, che fa l’insegnante. Un’ucraina sospettosa mi accusa di essere una spia dei russi, perché «stai riprendendo la targa» del camion che si è schiantato contro un muro.
Le truppe di Mosca avanzano lentamente ammettendo circa 500 morti, ma la cifra reale sarebbe tre o quattro volte più alta. Dopo una settimana di guerra il governo ucraino ha denunciato duemila vittime. Kharkiv, seconda città del Paese, è ormai un inferno sotto i colpi dell’artiglieria. Mariupol, lo strategico porto sul mare di Azov che bagna anche la Russia, è circondata, mentre Kherson ha dovuto arrendersi aprendo la strada verso Odessa, la città con l’architettura italiana dove leggenda vuole che sia nata ’O sole mio.
Dall’altra parte della barricata, Bruno Giudice è un italiano che vive a Donetsk, la «capitale» separatista, da ancora prima della guerra di otto anni fa che ha provocato 14.000 morti. «Buongiorno a tutti, il mondo sta passando dei giorni difficilissimi» è l’inizio del messaggio che ha scritto inviandolo poi a Panorama. «Vedo i politici, giornalisti, il Papa, artisti, gente normale tutti a fare appelli al presidente e al popolo russo. Che è una faccia della medaglia. Sappiamo che per litigare ci vogliono sempre due persone, come minimo».
A Kiev e nelle altre città ucraine «vedo i camion in piazza per distribuire le armi a chi capita per ottenere cosa? La morte della gente senza motivo» scrive Giudice, che non ha mai combattuto ma vissuto la guerra sulla sua pelle con la famiglia. «Adesso state puntando il dito verso di me e affermate che gli ucraini si difendono. Invece è un atto di disperazione. Solo per non prendere in mano quel maledetto telefono e fare la chiamata cercando il dialogo».
I colloqui sono avviati, ma sono tutti in salita. La gente, comunque, continua a sperare. Come Lera, appena sveglia in un bivacco improvvisato: «Ho 17 anni fra poco. Ogni notte vengo nel rifugio della scuola assieme a 200 persone perché fuori bombardano. Voglio la pace».
A migliaia, terrorizzati dall’ennesimo attacco o dall’assedio russo, prendono d’assalto i treni che partono verso l’Ovest. Pochi e sempre più pieni. Una valanga umana continua a invadere la stazione centrale di Kiev. Un anziano senza una gamba si trascina sulle stampelle, i bambini atterriti dal caos tengono stretti i peluche. Una signora di mezz’età in fuga scoppia a piangere spiegando che sua figlia la aspetta in Germania, ma partire è difficile. Ai binari devono intervenire i poliziotti per arginare la ressa verso i vagoni. Un controllore corpulento deve dare l’ordine, con la pena nel cuore: «Solo donne e bambini».
Sono scene strazianti anche per un veterano dei reportage di guerra. Padri e mariti che si separano dalla famiglia con un abbraccio. Fidanzati che si baciano e non vogliono lasciarsi o fratelli che dicono addio alle sorelle. Miroslav, uno studente biondo, come altri giovani non scappa: «Sono appena arrivato da Est per arruolarmi come volontario e difendere la capitale. Non ho esperienza militare, ma posso dare una mano trasportando rifornimenti o aiutando i feriti».
Le strade di Kiev sono quasi deserte, anche al di fuori degli orari del coprifuoco notturno. La città è spettrale con pochi negozi di alimentari aperti, che si notano subito per le lunghe code di cittadini che cercano di fare la spesa da scaffali sempre più vuoti. Anche noi giornalisti che alloggiamo all’Hotel Kozansky – ovvero «cosacchi», un nome che non è di buon auspicio – nella centrale piazza Maidan dobbiamo arrangiarci con pane, acqua e scatolette.
La benzina è un miraggio e circolano poche auto, rendendo deserta una capitale di tre milioni di abitanti solitamente intasata dal traffico. Via sms arrivano senza sosta gli allarmi per «oggetti sospetti o munizioni inesplose: non toccateli e informate subito il ministero dell’Interno».
Davanti al municipio di Kiev, sprangato e con i sacchetti di sabbia a protezione degli ingressi, si ferma un’auto con volontari armati della Legione internazionale, che si sta costituendo proprio nella capitale. «Stiamo tornando in Polonia per andare a prendere gli altri volontari in arrivo anche dall’Italia. È una battaglia per l’Europa e tutto l’Occidente» sentenzia Jordan che lavora per una società di sicurezza canadese. Anche 70 giapponesi, in gran parte ex militari, hanno risposto all’appello dell’ambasciata ucraina a Tokyo per arruolarsi, prima che il post fosse cancellato. Il ministro degli Esteri, Dmytro Kuleba, ha dichiarato che «volontari di 16 Paesi stanno raggiungendo l’Ucraina per combattere i russi al nostro fianco».
Una babushka in mimetica con unghie laccate di blu, che sembra un sergente di ferro, a una postazione dell’esercito sotto un cavalcavia conferma: «I russi? Sono poco più avanti». L’odore della battaglia aleggia: un camion incenerito fuma ancora e i rottami dello scontro sono dappertutto davanti alla caserma della 101° brigata. Alexander, 24 anni, studente di ingegneria richiamato in servizio, dice: «Una colonna russa cercava di sfondare. È stata dura, ma l’abbiamo respinta. Non molliamo e non cederemo di un centimetro».
