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La voce ai migranti: la verità che le Ong non vogliono sentire

La voce ai migranti: la verità che le Ong non vogliono sentire

Ecco le testimonianze di chi cerca di partire dalla Libia. Raccontano come, con semplici app, i trafficanti contattino le navi dei «soccorritori» per far arrivare il loro carico umano in Italia. E uno di loro dice: «Questo sistema deve finire».


Lo scorso 22 aprile un gommone carico di migranti partito dalla Libia naufraga nel Mediterraneo. Gli annegati spariti per sempre potrebbero essere 130. Pochi giorni dopo un migrante nigeriano racconta al telefono dalla Libia che i mercanti di uomini non utilizzano «vere imbarcazioni, sono solo canotti. Caricano le persone sopra un tubo gonfiato di plastica che non è in grado di trasportarle tutte. Ma c’è una connessione tra le Ong e i trafficanti. Hai capito?».

Dall’altra parte della telefonata, in Italia, Michelangelo Severgnini sembra interdetto e chiede: «Puoi essere più chiaro?». Il migrante risponde secco: «Quello che voglio dire è: non c’è modo che uno di questi gommoni parta senza che le Ong non ne siano a conoscenza». In tanti, come lui, confermano che i trafficanti monitorizzano con semplici app l’arrivo delle navi delle Ong e fanno salpare il carico umano per raggiungere il passaggio sicuro verso l’Italia. Non sempre l’appuntamento funziona, soprattutto se il mare è grosso come per il naufragio del 22 aprile. «Bisogna dire alle Ong che questo sistema deve finire» sostiene il migrante. «E mi appello alla mia gente: fermate queste traversate del mare. Non c’è ragione per rischiare la vita».

In vista dell’estate gli sbarchi di migranti partiti dalla Libia sono in netto aumento: 13.008 da gennaio fino al 12 maggio. Più di tre volte tanto rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, per non parlare del 2019 quando gli arrivi erano appena 1.077. Da tre anni il blog «Exodus – fuga dalla Libia» fondato da Severgnini fa ascoltare in rete le voci dei migranti intrappolati nell’ex regno di Mu’ammar Gheddafi raggiunti con un sistema di geolocalizzaione.

Le loro testimonianze raccontano verità scomode che cozzano con il copione degli estremisti dell’accoglienza. In tanti vogliono tornare a casa, tutti sanno come i trafficanti utilizzano le navi delle Ong e scoprono ben presto gli inganni delle «agenzie di viaggio» dei mercanti di uomini. Severgnini, regista, videomaker e documentarista ha raccolto su Exodus fra le 400 e 500 storie raccontate al telefono, via WhatsApp o con video selfie dai migranti in Libia.

A tutti garantisce l’anonimato per evitare rappresaglie. Quando ha dato voce alle verità scomode è finito al bando. «Mi stanno facendo terra bruciata attorno perché pubblico in rete ciò che non vogliono sentire» dice Severgnini, uomo di sinistra e pro migranti. «Sono stato radiato dai dibattiti. La sinistra pensa di mettersi a posto la coscienza dicendo di salvare le persone in mare ma favorisce i trafficanti. Le Ong sono un ingranaggio chiave del sistema».

Un migrante con la mascherina si riprende con il telefonino. «Assieme agli altri seguo le informazioni delle navi di salvataggio come Sea Watch, Open Arms e di Alarm Phone (il centralino dei migranti, ndr) per capire se riusciamo a passare (attraverso il Mediterraneo, ndr) o no» racconta il nigeriano. «Ma sono stufo. Non voglio più riprovarci. Ogni volta mi chiedono soldi. Desidero solo tornare nel mio Paese».

Un altro migrante fa scorrere sul cellulare i messaggi che annunciano le missioni sui social di Sea Watch e Mediterranea, l’unica Ong del mare italiana. Il 28 febbraio un ragazzo del Sud Sudan da Zawhya, uno degli hub di partenza dei gommoni, ammette che «seguiamo le pagine delle Ong per sapere quando sono in mare». E poi i migranti contattano i trafficanti per salpare verso le navi. «A volte è il trafficante ad avvisarci che stanno preparando i gommoni e lo raggiungiamo» spiega il migrante.

Il 12 novembre 2018 Severgnini ha messo in contatto via telefono John, un migrante in Libia, con il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, durante un evento pubblico. Il primo cittadino garantiva: «Non ti devi sentire solo. Spero davvero che un giorno sarai in grado di raggiungere Palermo e diventerai un palermitano. Restiamo in contatto». John ha provato per due anni ad arrivare in Sicilia, imbarcandosi sui gommoni, ma senza successo. Nel novembre 2020 ha filmato un video messaggio dalla Libia rivolto a Orlando: «Sarei molto felice se lei mi aiutasse a tornare a casa. In questo modo potrò anche unirmi alla lotta contro il traffico di esseri umani».

Il migrante chiedeva soldi per pagare i debiti dei riscatti versati alle milizie, durante due anni di odissea, per curare il figlio piccolo e rimpatriare con la famiglia che aveva portato in Libia. Exodus ha lanciato una raccolta fondi in rete, ma dal sindaco Orlando nessuna risposta. Le voci dei migranti denunciano le orribili torture in Libia e la riduzione in schiavitù con tanto di foto e video da fare accapponare la pelle.

Un migrante crocefisso alla grata di una cella, un giovane africano denutrito che piange sotto i colpi di bastone, un altro che si dimena per terra mentre gli versano cera calda sul corpo. Brutalità che servono a estorcere denaro ai parenti a casa come riscatto. Exodus ha raccolto 4.000 euro per liberare Abdul, nome di fantasia di un ragazzo del Sud Sudan sequestrato da una milizia. Durante l’assedio di Tripoli da parte delle truppe del generale Haftar i migranti venivano arruolati a forza.

«Per i libici siamo come soldi contanti. Lavoriamo per niente, combattiamo per niente e crepiamo nella loro guerra» testimonia un migrante. In molti vogliono tornare a casa. Nel documentario L’Urlo con le testimonianze degli intrappolati, uno di loro ammette: «Se non possiamo più andare in Europa penso sia meglio tornarcene nei nostri Paesi. Quando torni a casa vivi con la tua famiglia. Anche se sei povero trovi il modo di arrangiarti. La libertà è meglio della schiavitù». Per di più 42.000 migranti hanno già in mano un codice dell’Onu che garantisce la protezione internazionale. Tutti andrebbero ricollocati in Paesi sicuri, ma attendono anche anni e perdono le speranze.

Mohammed dalla Sierra Leone racconta cosa lo ha spinto a tornare a casa: «Sono stato in Libia. Ho subìto tanta umiliazione e discriminazione. Si sono presi i miei soldi. Adesso al mio Paese non ho molto, ma almeno sono libero». Mohammed è un retourné, i rimpatriati che talvolta danno vita ad associazioni per convincere i giovani a non partire come clandestini.

In Gambia, Mustapha Sallah è il fondatore del gruppo «Giovani contro la migrazione illegale» dopo essere fuggito dall’inferno libico. «Penso che il nostro governo e gli organismi internazionali dovrebbero aiutare i fratelli bloccati in Libia a tornare a casa» spiega. «So che la maggioranza vuole rientrare. Ne hanno abbastanza, sono senza speranza». Sallah è tornato in patria nel 2017 «e da allora lavoriamo nelle comunità, nelle scuole, con i media per sensibilizzare la gente. Cerchiamo di cambiare la struttura mentale dei giovani per convincerli a restare».

L’Organizzazione mondiale delle migrazioni, costola dell’Onu, ha rimpatriato dal 2015 quasi 60.000 migranti dalla Libia. Severgnini sta raccogliendo le storie di chi vuole tornare in un libro che uscirà in autunno con Sandro Teti editore, dal titolo significativo: Riportateci a casa. Secondo l’autore «imbarcare i migranti su gommoni che si deformano e affondano dopo poche ore è un reato. I salvataggi in mare non sono una soluzione alla crisi. Questo fenomeno dovrebbe essere fermato e non santificato. E per di più i trafficanti usano le immagini dei salvataggi delle Ong per adescare i ragazzi africani».

Una giovane della Sierra Leone rivela che basta cliccare «mi piace» su determinate pagine Facebook e «ricevi tutte le informazioni» compreso «se le navi di salvataggio sono tornate in mare». Un nigeriano con un messaggio vocale da Tripoli raccolto da Exodus rivela che «le centrali dei trafficanti predisposte per la partenza dei gommoni funzionano come normali agenzie (di viaggio, ndr)».
L’affidabilità, «il prestigio», dipende dalla percentuale di successo ovvero da quanti riescono a sbarcare in Italia con o senza le Ong. «Più prestigio, più migranti si rivolgeranno a loro tramite pagine Facebook che tutti conoscono» dice il nigeriano. «I ragazzi africani sono in contatto con gli amici che sono riusciti nella traversata e così si fanno un’idea sull’affidabilità del trafficante. Se dopo qualche giorno si ricollegano a Facebook dall’Italia, significa che ce l’hanno fatta».

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