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L’ombra del nuovo Isis si allunga sull’Europa

L’ombra del nuovo Isis si allunga sull’Europa

La fine dello Stato islamico in Siria ha dato impulso ad attentati nel Vecchio continente, con foreign fighter in rientro che rappresentano una minaccia concretissima. Intanto, in Medioriente, i «combattenti attivi» sono migliaia e l’Africa è la frontiera più avanzata del proselitismo jihadista.


Osama Bin Laden e Al Baghdadi sono morti, ma il terrorismo è più vivo che mai. Questo perché tutte le organizzazioni jihadiste sono deliberatamente concepite per garantirne la sopravvivenza, anche dopo la scomparsa dei propri leader. E la clamorosa uccisione del Califfo dell’Isis non fa purtroppo eccezione, visto che la sua sostituzione con lo sconosciuto Al Quraishi è stata pressoché immediata. Così come Al Qaeda non si è estinta dopo la fine di Bin Laden, ma persevera sotto la guida del suo numero due, Ayman al-Zawahiri. Ecco perché è lecito aspettarsi una nuova ondata di attacchi terroristici, anche in Europa.

Lo dimostra la fervente attività propagandistica sull’app Telegram dove, secondo le intelligence europee, attualmente circolano le principali comunicazioni dello Stato islamico. Se è pur vero che spesso tali comunicazioni criptate non riguardano l’Europa ma altri Paesi (Afghanistan, Egitto, Nigeria, Mali, Somalia, Filippine, dove i controlli statali sono meno stringenti e/o efficaci), tuttavia l’Unione europea resta il palcoscenico per eccellenza delle intemerate jihadiste: perché cuore antico dell’Occidente e della cristianità.

Stando alle cifre ufficiali, la Francia è il nervo scoperto: Parigi, i sobborghi di Lione e Marsiglia, l’Alta Savoia, ma anche piccole realtà come Annemasse, Bourg-en-Bresse, Oyonnax, Bourgoin-Jallieu. Qui è pesante la penetrazione degli islamisti radicali, la cui influenza cresce giorno dopo giorno, anche a livello politico: a Maubege, lungo il confine belga, l’Unione dei democratici musulmani francesi (Udmf) avrebbe addirittura il 40 per cento dei consensi, secondo più sondaggi.

Mentre è sotto gli occhi di tutti la violenza esplosa nella piccola Digione, che lo scorso giugno è stata tenuta in ostaggio da gruppi ben armati di nordafricani e ceceni, che si sono scontrati per oltre una settimana, ufficialmente per il controllo della droga.

A preoccupare le autorità europee è, però, soprattutto il trend delle azioni terroristiche: nel 2019 la curva ha ricominciato a crescere e raggiunto cifre allarmanti, tra attacchi terroristici tentati e riusciti. In totale oltre 60, di cui 18 portati a termine «con successo»: 10 in Italia e altrettanti nel Regno Unito; 9 in Francia; 7 in Germania; 3 in Olanda; 2 in Belgio; 2 in Austria, e così anche in Danimarca. A questi, si possono inoltre sommare 10 attentati scongiurati in Turchia e addirittura 21 in Russia. La maggior parte delle azioni ha visto l’impiego di coltelli, nel 76 per cento dei casi, e armi da fuoco (18 per cento); mentre in un episodio è stato utilizzato esplosivo, a Lione. In nove casi su dieci gli attentati rimandano all’Isis, che vede nell’Europa il palcoscenico migliore per dimostrare di essere ancora operativa e pericolosa.

Ne discende che il gruppo terroristico – orfano del leader Al Baghdadi e delle «centrali del terrore» in Siria e Iraq – fatica a reinventarsi e che, senza aiuti esterni, non è più così letale. Ma la sua diminuita efficacia non deve trarre in inganno, perché quei numeri segnalano al tempo stesso come la spinta propulsiva dei jihadisti non si sia affatto esaurita, favorita da una legislazione europea ancora troppo lenta e farraginosa, specie in materia di antiterrorismo.

Sempre più spesso, infatti, ex terroristi entrano ed escono dalle galere d’Europa neanche fossero porte girevoli. Foreign fighter, reclutatori e irriducibili condannati per reati connessi al terrorismo di matrice islamica, approfittano facilmente di permessi premio e altre imperizie delle norme antiterrorismo Ue, per «finire il lavoro» una volta fuori. Così, nel silenzio generalizzato, ogni anno sono centinaia i jihadisti liberati per buona condotta. Molti dei quali ricominciano da dove avevano lasciato. Il perché è riscontrabile più nell’ideologia della jihad che non negli ordini impartiti loro dai leader riconosciuti. Alla base tanto dell’Isis quanto di Al Qaeda, infatti, c’è la pressoché totale indipendenza dei «soldati» dalla catena di comando, in quanto la leadership rappresenta solo la bandiera del gruppo, senza però che essa eserciti un controllo verticistico e capillare sugli affiliati.

Lo dimostra sia la vicenda del nuovo evanescente comandante dell’Isis – il fantomatico Al Qurayshi, sulla cui esistenza vi è più di un dubbio – sia la storia del capo di Al Qaeda, Ayman al-Zawahiri, sopravvissuto a tre generazioni di terroristi e tuttavia mai davvero protagonista delle recenti azioni terroristiche. Afferma in proposito l’esperto Franco Iacch: «Esistono tre fattori rigeneranti del terrorismo islamico. Il primo è legato all’esperienza storica delle organizzazioni radicali che sono riuscite a fondere la jihad con il terrorismo, mentre i media occidentali hanno contribuito a perpetuare questa concezione errata. Il secondo fattore ruota attorno all’ideologia simile di questi gruppi, che consente loro di raggiungere obiettivi generali condivisi senza un coordinamento organizzativo. La loro forza deriva dall’ideologia e non dai leader, che difatti possono e vengono eliminati. La forza centrale di queste organizzazioni è la loro base radicalmente islamica, che ha un’ampia portata e permette loro di continuare a produrre nuovi gruppi terroristici. Il terzo fattore di cui godono questi gruppi è la loro grande capacità di sfruttare le condizioni locali come l’instabilità, i conflitti politici e settari. La forza militare è necessaria, ma ha un effetto soltanto temporaneo, poiché i terroristi sono in continua evoluzione e l’adattamento a sua volta si traduce in longevità».

Volendo parlare di «geopolitica del terrorismo», fuori dall’Europa si può affermare che il futuro del jihadismo sia nel continente africano. Il che è un pericolo per l’Unione europea, essendo l’Africa una catapulta verso le coste settentrionali del Mediterraneo. Almeno, questo è quanto credono Al Qaeda e Isis, che qui stanno concentrando i propri sforzi, per poi proiettare la jihad in Occidente, ambitissima meta finale del loro progetto egemone. Il quale consiste, in pratica, nella sottomissione delle «terre degli infedeli» al più intransigente credo maomettano.

L’espansione dello Stato islamico in Africa negli ultimi anni è stata rapida e sotto gli occhi di tutti, al netto della perdita delle roccaforti che erano state conquistate lungo le coste libiche. L’Isis – che in Medioriente può contare ancora su circa 4 mila «combattenti attivi», metà dei quali sono concentrati in Iraq – attualmente ha messo radici non soltanto nella popolosa Nigeria, attraverso l’affiliazione con Boko Haram; ma ha attecchito anche in Tunisia, Algeria e soprattutto in Egitto. Dove la Provincia dello Stato islamico nel Sinai rappresenta ormai una minaccia costante per il governo laico del Cairo.

Al Qaeda, invece, mantiene l’affiliazione con i somali di Al-Shabaab, che rappresentano un pericolo costante per il governo di Mogadiscio, ma anche per quello keniota (prova ne sia il rapimento della volontaria Silvia Romano). Il vero epicentro di Al Qaeda in Africa resta però il Sahel, e il Mali in particolare: facendo leva su conflitti etnici e tribali, e controllando i traffici di armi, esseri umani e droga che transitano nell’area e che hanno come meta proprio i litorali europei, l’organizzazione è destinata a dettare legge ancora a lungo in quest’area.

Del resto, l’ultima e più recente evoluzione dei terroristi islamici – come ha dimostrato il sequestro record nel porto di Salerno di 14 tonnellate di anfetamine dell’Isis, nel luglio scorso – è proprio la fusione con le reti criminali, che garantiscono ai jihadisti introiti costanti, per continuare a seminare il terrore a livello globale.

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