Al di là dell’importanza simbolica del viaggio del Papa, nel nord del Paese le tensioni si aggravano. Tra le milizie sciite che premono sulle comunità cristiane superstiti e l’Isis che si sta riorganizzando, al contingente italiano va il delicato comando della missione Nato.
Nel buio sciabolato soltanto dai riflettori del posto di blocco si intravedono i militari iracheni in assetto di guerra. «Dovete aspettare una scorta. L’intelligence ha segnalato una possibile autobomba in questa zona» dice un ufficiale di guardia. A un pugno di chilometri da Qaraqosh, che i cristiani della piana di Ninive chiamano «dono di Dio», il dispiegamento di sicurezza è capillare in attesa, fra poche ore, dell’arrivo di Papa Francesco nella sua storica visita in Iraq. Il 9 marzo, il giorno dopo il rientro a Roma del Santo Padre, la 14esima divisione lancia un’offensiva nelle province di Ninive e Anbar contro cellule e sacche dello Stato islamico, che non è mai morto. Non solo l’Isis rialza la testa, ma le milizie sciite legate all’Iran continuano ad attaccare le basi americane, lambendo il contingente italiano a Erbil, e il nuovo presidente americano Joe Biden reagisce ordinando raid aerei. Questo reportage di Panorama racconta la «guerra» dimenticata d’Iraq. Il 3 marzo, due giorni prima dell’arrivo di Francesco, gli estremisti sciiti hanno lanciato 13 razzi sulla base americana di Air al Assad. Il quarto attacco in un mese contro le truppe statunitensi in Iraq – ormai appena 2.500 uomini – che i miliziani filo-Iran vogliono cacciare del tutto dal Paese. Il 15 febbraio altri razzi avevano colpito l’aeroporto di Erbil, la «capitale» del Kurdistan iracheno, sempre diretti alla base americana. In risposta il presidente Joe Biden ha ordinato il suo primo raid aereo contro una base in Siria dei «Guardiani del sangue», il gruppo sciita che ha rivendicato l’attacco.
Italiani al comando
I razzi sono scoppiati a 500 metri da Camp Singar, la base degli oltre 250 militari italiani nel Nord dell’Iraq. Una missione dimenticata e per ora ridotta a causa del Covid, che affianca le forze curde dei Peshmerga nella pianificazione delle operazioni anti terrorismo. Il generale Francesco Principe è il più alto in grado della coalizione internazionale in Kurdistan e comanda il nostro contingente. La missione cambierà volto, sotto l’egida della Nato, con 4.000 uomini, in gran parte europei, al nostro comando, destinati a sostituire gli americani. In realtà gli Stati Uniti resteranno nel Paese, almeno in Kurdistan, dove il consolato americano si sta espandendo a dismisura con la previsione di 1.000 posti letto, di cui 800 per i marine. «Il passaggio di consegne dovrebbe arrivare prima di Natale» rivela una fonte della coalizione internazionale. Il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, è già venuto quattro volte in Iraq. E il 9 marzo ha confermato alle Commissioni difesa di Camera e Senato, che l’Italia sosterrà «il rafforzamento della missione Nato». E «siamo pronti ad assumere la guida, al termine del comando danese, a conferma dell’importanza della nostra presenza in un’area fondamentale per l’assetto degli equilibri in Medio Oriente». Durante la tappa conclusiva del viaggio con la messa del Papa nello stadio di Erbil, davanti a 10.000 persone, spesso il segnale dei cellulari scompariva. Gli italiani hanno dispiegato il bimotore C-27 Jedi, aggiornatissimo strumento della guerra elettronica che intercetta le comunicazioni radio dei gruppi jihadisti, qualsiasi telefono, «e può inibire il funzionamento dei cellulari utilizzati per fare esplodere le trappole esplosive» spiega la fonte della coalizione internazionale anti-terrorismo.
In Kuwait abbiamo schierato droni e caccia, che non bombardano ma forniscono immagini all’intelligence sulle nuove sacche dell’Isis e pure sugli schieramenti delle Unità di mobilitazione popolare (Pmu). Circa 100 mila miliziani sciiti costituitisi in milizia nel 2014, grazie a una fatwa del grande ayatollah, Alì al-Sistani, per fermare l’avanzata dello Stato islamico arrivato alle porte di Baghdad. Ora le Pmu, appoggiate da Teheran, sono integrate nel sistema di sicurezza iracheno e «schierate anche nella delicata zona di Makmur di fronte ai Peshmerga curdi, che temono i droni iraniani operanti nell’area» rivela la fonte alleata. Makmur è una fascia cuscinetto strategica fra Iraq e Kurdistan autonomo, dove i curdi controllano ancora dei ricchi pozzi petroliferi.
Un’altra minaccia per i cristiani
Le milizie sciite sono un pericolo anche per i cristiani. Nella piana di Ninive, cuore della cristianità in Iraq, la cittadina di Bartella è tappezzata dalle foto dei martiri sciiti a cominciare dal generale iraniano Qassim Suleimani e dal comandante delle milizie Abou Mahdi al-Mohandes inceneriti nel gennaio 2020 da un drone americano a Baghdad. Dopo la pulizia etnica religiosa perseguita dallo Stato islamico sono tornate a Bartella poco più di un migliaio di famiglie cristiane, meno della metà di quelle costrette alla fuga dal Califfato nel 2014. Le altre vivono come esuli nel vicino Kurdistan o sono fuggite all’estero.
Ai cristiani si sono sostituiti gli shabak, per metà sciiti e per metà curdi, che facevano i contadini. Le milizie li hanno radunati e rafforzati, formando la Brigata 30 utilizzata per combattere l’Isis e adesso per allontanare i cristiani. «Sequestrano o comprano terre e appartamenti con le buone o con le cattive. Prima siamo stati cacciati dal Califfato e ora siamo circondati dagli shabak» racconta un sacerdote della zona che chiede l’anonimato.
Il risultato è che nella piana di Ninive a nord di Mosul, grazie a finanziamenti iraniani, gli sciiti sono entrati in possesso o hanno costruito 13.000 case mettendo in piedi veri villaggi-roccaforte. Francesco non a caso ha incontrato Al Sistani, il «Papa» degli sciiti iracheni, che aveva alzato la voce per difendere i cristiani e fa da contraltare ai grandi ayatollah dell’Iran.
Il colonnello Jawad Habib, che Francesco ha salutato nella cattedrale di Qaraqosh, è un ex ufficiale di Saddam Hussein al comando delle Unità di protezione di Ninive. «Per difendere sette piccole città cristiane abbiamo 500-600 uomini addestrati dagli americani, che rispondono al comando centrale di Baghdad» dice l’ufficiale veterano delle guerre di Saddam. I suoi uomini sono tutti cristiani con il simbolo della croce assira sulla mimetica. All’ingresso di Karemelesh il posto di guardia è sovrastato da un crocifisso. Sul campanile della chiesa – data alle fiamme dall’Isis – sono rimasti i segni della brutale occupazione dello Stato islamico; «per non dimenticare» spiega padre Paolo. Il sacerdote ha portato sull’altare del Papa a Erbil la statua della Madonna decapitata e con le mani mozzate dai tagliagole del Califfato.
I cristiani, ai tempi di Saddam, erano un milione e mezzo, ma dopo anni di violenze e crisi economica sono scesi a meno di 300.000. Secondo «Aiuto alla chiesa che soffre», nella piana di Ninive è tornato il 45,3% dei cristiani fuggiti all’avanzata dell’esercito con le bandiere nere. Qui, la fondazione pontificia ha investito quasi 50 milioni di euro di euro per rimettere in piedi abitazione e chiese distrutte dall’Isis.
Lo Stato islamico non è finito
La vera minaccia è che esisterebbe una tacita alleanza tattica fra alcune milizie sciite estremiste e le cellule jihadiste contro il comune nemico americano. La fonte di Panorama rivela che «abbiamo informazioni di intelligence su posti di blocco in mano a gruppi sciiti dove sono stati fatti passare i terroristi orfani dello Stato islamico». Il 9 febbraio è stato catturato in Kurdistan il «cecchino» dell’Isis, che comandava i micidiali tiratori scelti del Califfato. Bashar Mustafa Hafez Adwan al-Awaisi sarebbe stato in possesso di una lista di obiettivi, soprattutto alti ufficiali della coalizione internazionale, compreso il generale Principe.
Sheikh Jaafar Sheikh Mustafa, vice presidente del Kurdistan iracheno, ammette che «l’Isis è ancora forte». Sulle alture che sovrastano Kirkuk i superstiti dello Stato islamico si sono rifugiati dopo la disfatta. In almeno cinque province irachene si registrano attacchi di cellule terroristiche con la tattica del «mordi e fuggi». La catena montuosa di Hamrin, a ridosso di Kirkuk, è il nuovo santuario.
Per la visita del Papa d’inizio marzo, «alcuni religiosi fondamentalisti sui social media hanno manifestato un atteggiamento ostile» ha denunciato monsignor Bashar Matti Warda. «Per loro il Pontefice è il re dei crociati che arriva nel Paese come missionario». Motivo in più per chiedere alla Nato, sostiene l’arcivescovo di Erbil, «un piano di sicurezza che pacifichi la piana di Ninive».
Nel capoluogo, Mosul, terza città del Paese, sono tornate solo 70 famiglie cristiane. Thanoon Yahya Yusuf, nonostante la visita di speranza del Papa, non ha dubbi: «Neppure se arrivasse il Messia, i cristiani che sono scappati tornerebbero a Mosul». Francesco ha pregato davanti alle macerie della piazza delle quattro chiese trasformate dall’Isis in prigioni e bombardate dagli alleati. Grazie a 55 milioni di dollari degli Emirati arabi, l’Unesco vuole restaurarle completamente. Altre, però, sono abbandonate. Nel 2017 siamo entrati per primi nella chiesa caldea di Santa Maria del perpetuo soccorso, appena liberata durante la sanguinosa battaglia nella «capitale» dell’Isis. Sul muro esterno, accanto al portone con la croce ancora crivellato dai proiettili, nessuno ha cancellato la scritta nera rimasta come allora: «Vietato l’ingresso, ordine dello Stato islamico».