Ha spazi immensi, pochissimi abitanti e grandi ricchezze minerarie molto ambite da Pechino. La visita pastorale di Papa Francesco accende l’interesse su un Paese dalla natura estrema, centrale però per la transizione energetica.
L’arrivo di Papa Francesco in Mongolia, il 31 agosto, accende i riflettori su questa terra remota. Qui vivono solo 1.500 cattolici – su 3,2 milioni di abitanti – e la religione dominante è il buddhismo, che nelle aree più remote cede il passo allo sciamanesimo. Una periferia del mondo dove si concentrano le sfide della modernità a cui il Pontefice è sensibile, come l’emergenza inquinamento, la diffusione dell’alcolismo, l’urbanizzazione disordinata, la disoccupazione giovanile. Non solo: c’è un’altra pericolosa e incombente presenza che si chiama Cina.
L’ingerenza di Pechino in Mongolia si è fatta sempre più aggressiva, poiché il vicino è un forziere di opportunità innanzitutto minerarie: giacimenti di carbone, rame, oro, ma anche di terre rare, essenziali alla transizione energetica. È un’industria che contribuisce per il 22 per cento al Pil e oltre l’80 per cento dell’export dello Stato asiatico. Gran parte di queste risorse rare lavorate da Pechino proviene dalla miniera di Bayan Obo – regione centrale della Mongolia – che si stima rappresenti complessivamente il 32 per cento della produzione mondiale.
Il Paese, però, ha problemi a gestire queste immense ricchezze del sottosuolo. Dal 1992, anno di approvazione della prima costituzione, dopo decenni di dominazione dell’Urss, lotta con l’instabilità politica. Continua a dipendere dalla Russia dalla quale importa petrolio ed elettricità e soffre il peso della Cina che assorbe l’86 per cento delle sue esportazioni, la metà quelle del carbone. Il sistema ferroviario di epoca sovietica si è arricchito solo ultimamente di tre nuove linee. Le poche autostrade sono state realizzate tra 2016 e 2020. In gran parte del territorio ci si muove su strade sterrate prive di segnaletica. Solo robusti fuoristrada, come i russi Uaz, riescono a muoversi su un terreno accidentato.
Il passaggio alla modernità procede in modo scomposto, senza un progetto. Come nell’esplosione urbanistica della capitale Ulan Bator, soffocata da un traffico caotico che scorre tra grattacieli di cemento armato, tutti uguali, con un brutto stile mix sovietico e asiatico. Accanto ai palazzoni grigi, sopravvivono le gher, le tradizionali abitazioni dei pastori nomadi, tende circolari ricoperte di feltro. Per il turista occidentale sensibile all’ambientalismo – soprattutto all’estero – fanno effetto le enormi ciminiere, con il pennacchio grigio dei fumi, proprio dentro la città. Le guide confermano che quando in inverno la temperatura scende fino a -40°C, l’unica fonte di riscaldamento è il carbone. Per questo la metropoli è in cima alla classifica delle più inquinate al mondo. Ulan Bator, chiamata con la sigla UB, conta oltre un milione e mezzo di abitanti, un numero in continua crescita. Le famiglie numerose sono infatti la normalità (il governo premia con un’onorificenza le madri con più di quattro figli); soprattutto, però, i mongoli abbandonano la steppa e si trasferiscono nell’area urbana in cerca di lavoro.
Basta salire nel punto più alto della città, allo Zaisan Memorial, eretto in onore dei combattenti mongoli e sovietici caduti durante la Seconda guerra mondiale, per farsi un’idea più concreta dell’espansione scomposta di UB, sovrastata da una cappa di nebbia grigiastra. Unico spazio aperto, la grande piazza con il palazzo del Parlamento, abbracciato a semicerchio da imponenti edifici che danno la sensazione di una grandeur un po’ dozzinale. Svetta il monumento equestre a Gengis Khan (40 metri di altezza), il condottiero che nel tredicesimo secolo conquistò quasi l’intera Asia e l’Europa orientale, elevato a mito unificante del popolo mongolo. Uscendo dalla capitale si è però immersi subito in un paesaggio ancestrale. Addentrarsi in queste regioni richiede viaggiatori adattabili. Anche Nandin, la guida locale, non lo nasconde. Mancano strutture alberghiere tranne nella capitale e si pernotta nei campi gher, dove spesso l’acqua è razionata. I punti di ristoro nei villaggi ricordano antiche stazioni di posta. L’asfalto lascia il posto a piste dalle rocce acuminate, testimoni dell’erosione di una preistorica era glaciale. La steppa si allarga come un mare ocra e marrone, in un silenzio assoluto interrotto solo dal fruscio di qualche marmotta che spunta dalla tana. Nel cielo planano avvoltoi in cerca di carogne o piccoli animali. Antilopi saiga sfrecciano lungo le piste polverose. La varietà di fauna che si incontra in un luogo così desolato è stupefacente. Come il Przewalski, l’ultima specie di cavallo selvatico al mondo, o il raro Maral, il cervo rosso.
Ancora più addentro il Paese – oltre 1,5 milioni di chilometri quadrati, più di cinque volte l’Italia – il celebre deserto di Gobi non comprende solo le dune di Khongor, la più vasta zona sabbiosa della Mongolia, 900 chilometri quadrati battuti da un vento instancabile. Il Baga Gazariin Chuluu, 250 chilometri a sud di Ulan Bator, è infatti un’area con numerose formazioni rocciose, ciò che resta di preistorici fondali marini. Anche le falesie di Tsagaan Suvraga, alte 60 metri ed estese per 400 metri, un tempo erano coperte d’acqua così pure i fiammeggianti massicci di Bayanzag. Sono affiorati in questa zona gli scheletri di dinosauri, vicini a un nido con le loro uova – esempio unico nella paleontologia – ora conservati nel museo della capitale. La natura assoluta stupisce di continuo. In pieno agosto, con una temperatura di oltre i 30 gradi, nel canyon di Yol, a un’altitudine di 2.500 metri, al fondo della gola che scende per oltre 300 metri, così stretta da impedire il passaggio di due persone, si conserva una lingua di ghiaccio perenne. Sugli altipiani, tappeti di stelle alpine si estendono a perdita d’occhio, tra cespugli di minuscoli fiori selvatici. In queste lande ancora intatte, già dominio di Gengis Khan, il silenzio stordisce. La presenza umana si riduce a pochi nomadi. Vivono nelle tende, allevano cavalli, pecore, yak sulle montagne e le capre hircus, una razza locale. Dalla loro lana si ricava un pregiatissimo cachemire. E maglioni e vestiti vengono venduti nel centro di Ulan Bator a un prezzo al quale, in Italia, non si riuscirebbe ad acquistare nemmeno un capo sintetico.
«D’estate i giovani, che studiano in città, fanno ritorno ai villaggi e aiutano i genitori ad accudire il bestiame. Le vacanze non esistono, alcuni gestiscono piccole attività turistiche ma solo in questi mesi». A parlare è Saran, insegnante di inglese in una cittadina ai confini con la Siberia, che a luglio e agosto fa la guida per quei pochi stranieri, soprattutto tedeschi e francesi, più propensi ai tour-avventura. Qualche famiglia accoglie i visitatori nella propria abitazione per un pranzo semplice ma gustoso, al costo di una manciata di tugrik, la moneta locale. «I miei ragazzi studiano a Ulan Bator, uno informatica l’altro ingegneria, ma in estate tornano qua, al loro villaggio» racconta orgogliosa la padrona della gher. Alcuni di loro gareggiano nei tornei del Naadam, la festa nazionale di metà luglio. Per una settimana il Paese si blocca e ovunque si svolgono le tradizionali competizioni di lotta libera, corse a cavallo senza sella e tiro con l’arco, alternate a danze tipiche e canti, con una coreografia ancora di ispirazione sovietica. I più anziani gareggiano al tiro con la balestra che vede impegnate anche le donne. Amina, il viso segnato dal sole, esibisce orgogliosa le sue medaglie. Racconta che pratica questa disciplina fin da piccola e ha vinto non ricorda più quanti tornei nazionali.
La scomoda eredità stalinista si legge anche nei ruderi dei monasteri buddhisti. Durante quella repressione, oltre duemila luoghi sacri vennero distrutti e 27 mila religiosi uccisi, imprigionati o deportati. Uno dei pochi risparmiati è il monastero di Gandan, fondato nel 1838 vicino a Ulan Bator, dove si ammirano preziosi dipinti e statue. Qui i religiosi continuano a officiare i loro riti. A sera le preghiere si disperdono in un cielo immenso, con la Via Lattea sembra scorrere come un fiume di luce cristallina. In questa dimensione dove il passato stride con la contemporaneità, Papa Francesco si trova a misurare le difficoltà della piccola comunità cristiana. Sopravvissuta alla repressione sovietica, rischia di essere «normalizzata» e assorbita dall’espansionismo cinese per cui il Paese è un cortile di casa. Un esempio di tutte le minoranze che oggi soffrono più di una colonizzazione economica che ideologica.
