Il giornalista pakistano racconta i retroscena delle sue tre interviste a Osama bin Laden. E commenta: «Era un narcisista con un grande ego».
Hamid Mir è il più influente giornalista pakistano, scampato per miracolo a ben due attentati terroristici per la sua sete di verità e giustizia. Ma nel marzo 1997 era ancora un giornalista in erba quando si recò a Tora Bora, nelle impervie caverne afghane, per conoscere il pensiero dei talebani, che avevano appena preso il potere. Ancora non lo sapeva, ma stava per realizzare l’intervista che gli avrebbe cambiato la vita: Mir è l’unico giornalista in assoluto ad aver incontrato Osama bin Laden, prima che quest’ultimo diventasse l’icona del male assoluto e che Al Qaeda scatenasse la sua furia terroristica contro l’Occidente. Nel maggio 1998, Mir lo intervistò nuovamente, e così ancora l’8 novembre 2001, mentre i detriti delle Torri gemelle ancora fumavano e centinaia di dispersi restavano sotto le macerie. Lo abbiamo incontrato in Svizzera, nel contesto del Festival culturale Endorfine di Lugano. «Prima dell’11 settembre, Bin Laden mi aveva sempre concesso l’uso dei microfoni e delle telecamere. Era un uomo piuttosto sicuro di sé, nonostante fosse sempre circondato da miliziani di Al Qaeda. Ma dopo gli attentati, tutto era ormai cambiato. Anche il suo modo di fare. Non si fidava più di me, si era fatto sospettoso. A favore di telecamera, ad esempio, non voleva in alcun modo confermare di essere il diretto responsabile degli attacchi al World Trade Center. A microfoni spenti, invece, si sentiva a suo agio. “Sì”, mi confessò con un moto di orgoglio, “sono stato io”. Gli domandai perché non intendesse dichiararlo apertamente. La sua risposta fu: “Forse che il presidente Bush si prende la responsabilità per le malefatte dell’America? O per il fatto di supportare gli israeliani quando uccidono dei bambini palestinesi?”. “Dunque, lei si paragona a un politico” commentai. Si mise a ridere».
Che cosa voleva dimostrare? Cosa le disse al riguardo?
«Era un narcisista con un grande ego. Voleva che gli fosse riconosciuto il suo ruolo di eroe dell’Afghanistan per aver sconfitto i sovietici. Pensava che l’Arabia Saudita gli dovesse una sorta di leadership. Mentre loro lo deridevano. Non riuscì mai a convincerli che per destituire Saddam Hussein sarebbero bastati i miliziani di Al Qaeda. A Riad pensavano che solo gli americani avrebbero potuto fare una cosa del genere. Così lui coltivò la vendetta. La frattura tra Osama e il governo saudita non si è più rimarginata. Imprigionato dai suoi stessi compatrioti, fuggì in Sudan, dove iniziò a tessere quella rete anti-americana che lo condusse fino in Afghanistan, dove invece i talebani gli riconobbero un ruolo da leader, e lui ne fu gratificato».
Perché proprio l’Afghanistan?
«I talebani del mullah Omar seguivano semplicemente la tradizione tribale che imponeva loro di proteggere un ospite. Non c’era alcun patto tra loro, né Osama avrebbe mai accettato di sposare una figlia di un capo tribù locale, in quanto non araba. Quello che non molti sanno è che, in realtà, il mullah Omar voleva spedirlo in Cecenia, consapevole della pericolosità di tenerselo in casa. Là avrebbe combattuto contro i russi, e l’Afghanistan sarebbe stato salvo. Ma il mullah non conosceva la geografia, e quando gli fu fatto notare che era impossibile farlo passare indenne attraverso così numerosi Paesi, si rassegnò. Di fatto, il mullah Omar ha sacrificato il suo Paese. Mentre Bin Laden stesso mi confessò che desiderava che gli americani venissero a cercarlo in Afghanistan. Sapeva che, se provocati, lo avrebbero inseguito in capo al mondo accecati dalla vendetta, e riteneva che qui avrebbero trovato un nuovo Vietnam».
Cosa che poi di fatto si è puntualmente verificata.
«Già. Del tutto prevedibile, allora come oggi. Negli ultimi anni, ad esempio, i talebani avevano iniziato a fare il doppio gioco. I russi fornivano loro informazioni strategiche e così pure gli iraniani, che vedevano nei talebani afghani un argine contro l’ascesa dell’Isis nella regione. Stava per succedere qualcosa di grosso, ma né Washington né Islamabad volevano vedere e preferivano credere alle riunioni in Qatar, dove i talebani svolgevano colloqui formali, negando ogni velleità di una presa immediata del potere».
Era tutto calcolato?
«Molto è dipeso anche dall’ex presidente Ashraf Ghani. Con il suo comportamento, cioè fuggendo via con i soldi, ha fornito un’ottima occasione ai talebani per sostituirsi a lui. Era l’occasione giusta. È come se Ghani gli avesse detto: “Ok, venite e prendete il mio posto”. La fuga degli americani è stata l’inevitabile conseguenza di quel gesto»
Mentre i servizi segreti pakistani?
«Loro ancora ad agosto si facevano beffe dei talebani. Li deridevano perché non li ritenevano capaci di tanto. Ma le loro analisi si basavano solo sul numero dei soldati. “Come potrebbero 300.000 soldati essere sconfitti da 75.000 miliziani peggio armati?” andavano dicendo. Eppure stava succedendo sotto i loro occhi, ma non se ne sono accorti».
Questo dimostra che i talebani sanno il fatto loro. Ma saranno in grado di gestire lo Stato e la diplomazia?
«Il fatto che il ministro degli interni, Sirajuddin Haqqani, già nella blacklist dell’Onu, abbia incontrato il rappresentante speciale Onu per l’Afghanistan – che peraltro è una donna – è il segno di un’apertura da entrambe le parti. Ora, se i talebani rispetteranno i patti, includendo le altre etnie e le donne e non lasciando che il Paese si trasformi in un hub per il terrorismo, allora diremo che sono cambiati. Altrimenti, dovremo concludere che sono i medesimi di un tempo, che usano solamente nuove tecniche».
